Chi di propaganda un ieri non troppo lontano sembrerebbe aver voluto colpire dai banchi caldi e rassicuranti della opposizione de-responsabilizzata, di propaganda poi potrebbe essere destinato a perire sugli scranni dell’esecutivo.

E il condizionale è d’obbligo considerato che in fondo in fondo nessuno se lo augura per il migliore interesse comune. Insomma: chi ha votato per Giorgia Meloni in quel famoso 25 settembre dell’anno 2022 parrebbe averlo fatto certamente, o quasi, avendo in mente una idea di azione di governo totalmente differente rispetto a quella nei fatti esercitata dalla neo nominata Presidente del Consiglio all’atto del suo insediamento.  E nonostante la narrazione, ancora, si presenti in qualche modo forgiata attraverso gli accenti di un “populismo”, ma sarebbe più corretto dire “conservatorismo”, volutamente sopito e sia, pur timidamente, ancora articolata con l’intercalare di sporadici slogan solamente sussurrati contro taluni percettori di reddito di cittadinanza e contro i migranti e contro (ma non troppo) l’Europa, tuttavia appare innegabile una certa importante continuità con il Governo che fu di Mario Draghi e con i suoi diretti interlocutori presso le Istituzioni Europee.

Se sarà un successo o una drammatica débâcle sarà il tempo a dirlo, ma i segnali di malcontento popolare sono già presenti e iniziano a destabilizzare la leader in pectore di Fratelli d’Italia e il suo rapporto, già probabilmente instabile in ragione dello sbilanciamento dei rapporti di forza interni, con gli alleati di coalizione e di governo. Insomma, l’esecutivo di Giorgia Meloni, appena nato, rischia di restare travolto dall’insoddisfazione e dal malcontento di coloro che, con il loro consenso espresso, l’hanno insediata a Palazzo Chigi sull’idea di un rinnovamento di cui ad oggi non parrebbe rinvenirsi traccia. Circostanza, quest’ultima, che rappresenta un problema nel momento in cui si consideri che il diretto avversario politico della stessa Giorgia Meloni sia oggi Giuseppe Conte, professore e avvocato amatissimo dalle folle, e malgrado tutto, ossia malgrado il giudizio dei suoi competitor politici, preparatissimo sul piano giuridico-istituzionale.

Sulla empatia verso la “Giorgia Nazionale” pesano i rincari dei prezzi, il calo del potere di acquisto della moneta, i meccanismi dell’inflazione, arrivata alle stelle, e la questione “accise” sui carburanti che, inevitabilmente, si riflette sul paniere dei prezzi al consumo comportando l’impennata dei costi dei beni di prima necessità.

La Regina Europa sembra sovrastare pure il nazionalismo di Fratelli d’Italia che, dal canto suo, non poteva probabilmente che restarne condizionato indissolubilmente, perché solo ciò che l’Unione Europea comanda sembrerebbe potersi e doversi fare. Sarebbe utopia pensare o anche solo sperare il contrario, come pure sarebbe utopia ritenere che il colore politico del governo italiano in carica possa essere vissuto con atteggiamento disinvolto da parte delle attentissime istituzioni europee nonostante l’atteggiamento fortemente improntato alla centralità e alla moderazione adottato dal nostro Presidente del Consiglio dei Ministri. Per dirla in breve: se Giorgia Meloni volesse assumere un ruolo rilevante in Europa e incidere sulle politiche europee alla pari di Francia e Germania, dovrebbe iniziare a riflettere su una circostanza quasi lapalissiana nella sua evidenza: l’Unione Europea non ha mai funzionato alla stregua di una democrazia parlamentare tecnicamente intesa, ossia composta da maggioranze e minoranze, ma solo e unicamente come un percorso ad alleanze variabili sia di carattere politico, sia di carattere nazionale, ispirate dalle difficoltà di volta in volta presenti. Sicché pure gli “amici” sono destinati a mutare all’occorrenza, condizionando imprescindibilmente la stessa collocazione politica sovra-nazionale dei diversi partiti di riferimento.

Manca a tutt’oggi una idea coerente e pacificante di Europa, e siffatta circostanza non poteva non riflettersi su una esperienza di governo, quale quella conservatrice, ma non troppo, di Giorgia Meloni che si ritrova, sembrerebbe, a dover fare i conti con il proprio riflesso identitario e financo esistenziale. Qual è, nei fatti, il ruolo e il posizionamento del Governo meloni in Europa? È quello che già fu di Mario Draghi? Oppure si tratta di un Governo ancora alla ricerca di una identità Europea necessariamente differente rispetto a quella che fu nel passato appena trascorso? L’interrogativo è tutt’altro che scontato giacché dalla sua utile definizione dipenderà il futuro dell’Italia e del popolo italiano, e quindi, per essere concreti, il futuro dell’interesse nazionale. Si tratta di rispondere a quelle che sono sempre state le dinamiche dell’integrazione europea: stessi diritti e stessi doveri per tutti i Paesi membri, medesime politiche comuni, identiche procedure. È questo, anche per Giorgia Meloni, il “prezzo” da corrispondere al principio base del multilateralismo. Se anche sia vero che con l’intervento della crisi il rapporto “integrazione” - “disintegrazione” parrebbe essersi incrinato in misura consistente, conseguendone un rilevante calo di consenso popolare verso le istituzioni europee, e quand’anche sia vero che con il crescere delle differenziazioni interne si siano implementate le tendenze di ri-nazionalizzazione sul piano politico, tuttavia questi blocchi di potere non sono mai riusciti a contrapporsi in maniera decisiva alla “gestione” sovranazionale del potere e delle sue articolate dinamiche. E proprio questo fattore potrebbe incidere enormemente sui risultati delle prossime amministrative, le quali, a tutto voler considerare, sono tutt’altro che scontate nel loro esito proprio in considerazione del “fraintendimento” argomentativo in qualche modo portato avanti, e loro malgrado, dalle tre destre di governo, quella di Fratelli d’Italia, quella della Lega di Matteo Salvini, e quella di Forza Italia di Silvio Berlusconi che, a loro volta, e nonostante l’apparente uniformità di vedute, portano avanti narrazioni variamente articolate nei toni se non proprio negli intenti, ingenerando un certo disorientamento all’interno del loro stesso multiforme elettorato.

Tale “misunderstanding” rischia seriamente di giocare a favore tanto di Giuseppe Conte quanto di Carlo Calenda e proprio in Lombardia rischia seriamente di incidere, e in maniera negativa, sulla riconferma di Fontana alla guida della Regione motore d’Italia.

Non si tratta di fare le “Cassandre” della situazione, ma solo di prendere atto dei rischi e dei pericoli incombenti su una maggioranza di governo probabilmente a disagio per non poter dare seguito pienamente alla propria ispirazione politica e per ritrovarsi imbrigliata tra le maglie strette di una azione di governo imposta dall’alto e dalla quale non può in alcun modo discostarsi.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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