Mentre la politica si sofferma sulle sfumature dell’armo-cromia di Elly, dolce, colta e fortissima segretaria del Partito Democratico, e mentre, ancora prima, quella stessa politica continuava a discorrere, quasi ve ne fosse reale bisogno, sul valore pregnante del 25 aprile con lo sguardo rivolto agli eventi del passato, superati oramai grazie al cielo, risuona, gradito e atteso, quasi a volerci tutti riportare nel presente, il pragmatismo di Sergio Mattarella, che, con lo sguardo rivolto, per converso, verso il contingente e verso futuro prossimo e lontano, si rivela capace di indicare a tutti la via maestra da intraprendere senza esitazioni di sorta.

A buon intenditor, dunque, poche parole, e l’esecutivo dovrebbe rivelarsi conseguente: «L'unità del Paese significa unità sostanziale sul piano delle opportunità di lavoro». «Significa impegno per rimuovere le disuguaglianze territoriali». «Presidiare e promuovere l'unità nazionale significa anche questo». «Il lavoro è indice di dignità perché è strettamente collegato al progetto di vita di ogni persona». «Mentre si riaffaccia la tentazione di arrendersi all'idea che possa esistere il lavoro povero, la cui remunerazione non permette di condurre una esistenza decente, è necessario affermare con forza, invece, il carattere del lavoro come primo, elementare, modo costruttivo di redistribuzione del reddito prodotto». Lo ha detto per l’appunto il Presidente Sergio Mattarella parlando a Reggio Emilia in occasione della Festa del Lavoro. Anche la “location”, diversa da quella tradizionale, individuata nell’austero Palazzo del Quirinale, appare, ed è ricevuta dai più, come significativa di una volontà di insistente presenza della più alta carica dello Stato nella vita lavorativa dei suoi cittadini troppe volte vittime «degli infortuni sul lavoro, che distruggono vite, gettano nella disperazione famiglie, provocano danni irreversibili, con costi umani inaccettabili». «La precarietà come sistema stride con le finalità di crescita e di sviluppo». «Ampliare la base del lavoro, e la sua qualità, deve essere assillo costante a ogni livello, a partire dalle istituzioni». Ebbene. Se tali, e di tale consistenza appaiono le premesse ideologiche che, all’evidenza non potrebbero, né dovrebbero, andare disattese proprio in ragione della loro lucida e trasparente rilevanza sul piano pratico, in che modo il nuovo decreto lavoro, che verrà varato, stando agli annunci, proprio nella giornata odierna, potrà dirsi rispondente a quelle medesime premesse, sul piano dei contenuti? In che modo il discusso superamento del reddito di cittadinanza, che nel periodo pandemico ha innegabilmente contribuito a garantire non solo il sostentamento di tanti nuclei familiari più poveri, ma anche la stabilità sociale del Paese, potrà contribuire a garantire la crescita se il rapporto tra la domanda e l’offerta del lavoro, con buona pace di Cig, Pal e Gal, non ha mai rinvenuto, e da decenni a questa parte, il suo punto di equilibrio?

Se l’obiettivo, per quanto consta in base alle anticipazioni offerte dai media, è quello di modificare l’impianto del Decreto Dignità approvato nel lontano anno 2018 dal Governo Conte I (di cui, peraltro, faceva pienamente parte l’alleato di Governo Matteo Salvini e la sua Lega) il quale, a ben ricordare, prevedeva, in coerenza al monito attuale di Sergio Mattarella, la riduzione del numero e della durata delle proroghe dei contratti a tempo determinato, considerati alla stregua di uno specchietto per le allodole e per nulla utili sul piano della lotta alla precarietà e alle sue contraddizioni, in che modo, la “legalizzazione e/o deregolamentazione”, se tale volessimo definirla, della flessibilità in entrata ed in uscita può garantire stabilità contrattuale e crescita professionale? Delle due l’una: o stabilità o precarietà.

Con tutto ciò che, nella seconda ipotesi, consegue. Intanto, perché l’obiettivo unico da perseguire, al di là delle riforme di bandiera che nulla parrebbero avere a che vedere con il bene comune, dovrebbe essere quello di restituire “dignità” al lavoro, portando avanti iniziative originali ed inedite che siano idonee a favorire la continuità professionale e salariale prendendo ad esempio realtà virtuose già presenti in Europa, come ad esempio la Spagna, nel contesto della quale, si è portata avanti la lotta alla precarietà attraverso un impianto riformistico rivelatosi, tutto considerato, soddisfacente. Quindi, perché, la contrattazione flessibile, non può che riverberarsi in danno alla parte più debole del sinallagma contrattuale, siccome a trarne giovamento, sarebbero solamente le parti datoriali. E non ci vuole la scienza di Mazzini per capirlo. Infine, perché la fretta, allo stato attuale, non appare, e non lo è invero mai, come buona consigliera specie allorquando, come nell’ipotesi contingente, ogni azione si inserisca, come di fatto si inserisce, all’interno di una cornice solo in apparenza splendente, il cui quadro presenta invece una realtà instabile destinata, con buona verosimiglianza, e la quotidianità lo conferma, a precipitare in una fase di recessione senza precedenti in tutto e per tutto idonea (in assenza di interventi mirati seppure non miracolosi a garantire quanto meno, il minimo benessere comune) a destabilizzare in modo irreversibile il Paese.

Se anche fosse vero che “il lavoro”, per riprendere le parole del Presidente del Consiglio, “non lo crea lo Stato con Decreto”, tuttavia è altrettanto vero, diversamente da quanto lo stesso Presidente parrebbe ritenere, che il punto di vista da tenere in considerazione non è solo quello dell’impresa allorquando le criticità si siano da tempo radicalizzate nel sostrato basilare della comunità, quello in breve, che anima, sul piano soggettivo, l’attività della impresa medesima, vale a dire nel prestatore d’opera. A diversamente voler ragionare si finirebbe per approntare norme di favore per l’imprenditore alle quali non farebbero da contraltare norme altrettanto favorevoli per il lavoratore, siccome l’interesse dell’uno entrerebbe in conflitto con quello dell’altro. Paradossalmente, la implementazione dei contratti a termine e la estensione della loro durata, perché tali parrebbero le premesse, e speriamo di no, del nuovo decreto, finirà per allargare le maglie della precarietà che Giuseppe Conte aveva voluto eliminare. Insomma, in una realtà, quale quella italiana, ove il tasso di disoccupazione sembra aver raggiunto livelli preoccupanti, non si dovrebbe prescindere tout court da un sistema assistenziale di conforto idoneo a fungere da cuscinetto fin tanto che non si raggiunga un livello apprezzabile di stabilità nel rapporto tra domanda e offerta di lavoro. Insomma, di fronte ad una maggioranza di governo che appare spedita nell’adozione di misure di interesse comune, e che necessiterebbero di un ampio dibattito parlamentare di confronto, non si può non notare la debolezza dell’opposizione, dalla quale ci si attenderebbe una risposta stringente: lotta alla precarietà, garanzie di stabilità, formazione e salario minimo garantito per legge in nome della dignità della persona e nel rispetto e piena esplicazione dell’articolo 2 della Costituzione che mai deve essere messo da parte nel suo disposto guida.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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