Si può far finta di ignorare la circostanza, qualunque ne sia la ragione. Ma la sostanza del ragionamento non pare poter cambiare: per farla breve, quello della ex sovranista Giorgia Meloni sembra apprestarsi ad essere il governo più a sinistra che la stessa storia della stessa sinistra “borghese” e mai “popolare” degli ultimi decenni possa ricordare.  Tentare di negarlo sarebbe puro, semplice e inutile esercizio di stile.

Del resto, l’ostinazione a voler seguire il solco tracciato da Mario Draghi ne è la riprova schiacciante. Tanto valeva tenerci l’originale se l’intenzione era quella di cambiare tutto per non cambiare nulla.

Il problema, per la Giorgia nazionale, sembrerebbe essere unicamente quello di rinvenire una formula utile a garantire un “camuflage” indolore (si fa per dire) finalizzato a rappresentare il suo ideale di governo in maniera apprezzabile al popolo degli elettori che si erano determinati a concedere alla leader di FdI il proprio favore elettorale e che già oggi potrebbero aver cominciato a pentirsene. L’operazione può ben richiedere del tempo, e di certo non può che collidere con le legittime aspettative non solo dei vogliosi alleati, dei cui “desiderata” Giorgia Meloni non può non tenere conto, ma anche di quelli delle varie componenti soggettive del suo stesso partito, ansiose di riscattare il proprio “premio” elettorale. La gestione della distribuzione degli incarichi, dunque, si presenta tutt’altro che agevole, e le variabili si moltiplicano di ora in ora andando a complicare una rappresentazione governativa che potrebbe riservare sorprese dal retrogusto piuttosto amaro, soprattutto in ragione della asseverazione che Sergio Mattarella sarà chiamato ad offrire una volta concluse le consultazioni.

Quale potrà mai essere dunque la sostanza del mandato che il Presidente della Repubblica potrà affidare per la formazione del nuovo governo? Se tutto parrebbe condurre a ritenere che l’incarico sarà affidato a Giorgia Meloni in ragione degli esiti del voto del 25 settembre, tuttavia non sarebbe opportuno, e neppure realistico, escludere a priori ulteriori possibilità, specie in considerazione dell’ancora attuale inconsistenza ideale del programma esecutivo che dovrà accompagnare le attività di governo dei prossimi mesi. Che fine farà il programma elettorale di coalizione nelle sue varie articolazioni economiche e costituzionali? Si vorrà perseguire ostinatamente la via dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica e/o quella della attuazione della legge sul federalismo fiscale passando attraverso il riconoscimento delle autonomie ai sensi dell’articolo 116, comma terzo della Costituzione? Davvero queste sarebbero oggi le priorità? Evidentemente no. E Giorgia Meloni questo lo sa, e deve e dovrà fare il possibile per evitare che l’alleato leghista possa rovinare i suoi piani di governo tendenzialmente orientati, in pieno stile sinistrorso radical chic, e quindi borghese, a non deludere le aspettative delle Istituzioni Europee e delle maggiori cancellerie ad esse correlate che potrebbero ben avvertire la vittoria della destra italiana come una potenziale linea di frattura sul piano della coesione dell’establishment.

Il problema di fondo, tuttavia, e per intenderci, è che purtroppo le istituzioni europee hanno ben poco da temere siccome se anche la gran parte della popolazione si è determinata a disertare le urne, e quella residua ha voluto votare una sedicente destra annacquata, il merito non va riconosciuto a quest’ultima, ma andrebbe piuttosto ricondotto, e per converso, alle responsabilità di una sinistra che sembra aver abbandonato il proprio elettorato di riferimento per abbracciare quella piccola borghesia di benestanti desiderosa di affermarsi socialmente. Il problema che si affaccia alla finestra del partito di Giorgia Meloni è quello di definire le nuove priorità che, lungi dall’essere quelle avanzate in campagna elettorale dai suoi alleati (lei aveva opportunamente taciuto per non dover poi deludere le aspettative), dovranno necessariamente abbracciare gran parte del programma elettorale delle varie sinistre rimaste orfane di Mario Draghi e desiderose di rinvenire qualche briciola di protagonismo nella nuova squadra di governo. Proprio così, perché ad ogni buon conto, il pensiero costante della leader di Fratelli d’Italia sembra essersi identificato per immedesimazione organica con quello di una sinistra orientata all’europeismo inteso nella sua accezione più pura, ossia quale delega di gran parte del potere decisionale a organismi in alcun modo elettivi e lontani per i quali ogni buon concetto di sovranità pare essere divenuto un ostacolo da abbattere.

Se oggi volessimo comprendere la sostanza dell’azione politica di cui Giorgia Meloni dovrà farsi pallida interprete, dovremmo rammentare le parole che Mario Draghi volle pronunciare nel momento in cui tenne il suo discorso per ottenere la fiducia al Senato: “Nelle aree definite dalla debolezza degli Stati nazionali, essi cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa”. A significare che lo scettro del potere è detenuto altrove e, pertanto, se anche il nostro governo dovesse legiferare, lo farà unicamente nei limiti dei regolamenti europei, a prescindere da ogni differente (e non sarà mai differente) volontà di chiunque si trovi a dover ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio dei Ministri. Giorgia Meloni, come tutti gli altri, non potrà ignorare gli effetti della cosiddetta “sovranità condivisa”, di cui, tuttavia, con buona verosimiglianza, non è neppure in grado di farsi interprete funzionale. Solo una repentina trasformazione radicale dell’Unione Europea e dei suoi meccanismi di funzionamento potrebbe salvarla dalla “trappola istituzionale” che l’esito di queste urne le ha riservato. Se, oggi, volesse realmente fare la differenza, facendo leva sul suo ruolo nel complesso europeo, dovrebbe preoccuparsi non di assecondare, quanto piuttosto di combattere un’Europa che, pur avendo una potenzialità economica imponente, risulta comunque afflitta da un nanismo politico e militare che vale a renderla succube del colosso americano condannandola a seguirne gli orientamenti sul piano geopolitico. Dovrebbe combattere per favorire finalmente una trasformazione che prenda il suo via proprio dalla abolizione dei debiti dei Paesi Membri. In questo senso, probabilmente, dovrebbe rassegnarsi a rinunciare al ruolo di “Premier” di questo formando esecutivo, per lasciare spazio ad altri interpreti maggiormente rappresentativi delle istanze di cambiamento. Qualcuno che, anche a prescindere dalla sua storia politica, sembrerebbe riuscire ancora ad imprimere un ascendente importante in Europa.

Forse, però, il problema resta proprio quello della mancanza di leadership e probabilmente Giorgia Meloni dovrà rassegnarsi a gestire nelle sue mani una “patata bollente” che potrebbe segnare la fine della sua esperienza politica. Altro che toto-ministri. La scelta è solo il riflesso di una storia già scritta ove il protagonismo di Giorgia sembrerebbe essere limitato in partenza ponendosi come pia illusione di un successo condizionato per essere già stato viziato all’origine dall’impronta del “Drago”.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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