Gli accadimenti recenti, la polemica su Fedez dopo il suo discorso in occasione del Concertone del 1° maggio durante il quale si è accoratamente premurato di prendere di mira le frasi omofobe pronunciate da taluni esponenti leghisti, i “botta e risposta” tra quanti hanno sostenuto, e sostengono, la causa del rapper a favore del disegno di legge Zan in aperto contrasto con la Lega e quanti, invece, la abbiano avversata, e la avversino tutt’ora, sono lo specchio, forse non troppo nitido, della società italiana contemporanea, all’interno della quale sembrano agitarsi “anime” forse troppo banalmente contrapposte e per ciò stesso incapaci di addivenire ad un percorso di sintesi coerente e responsabile nell’ottica di una rispettosa convivenza civile.

Ho avuto, ed ho, come l’impressione che nel tentativo di voler regolamentare il “tutto” per colmare i “vuoti” del niente,  nel voler assecondare l’esigenza di semplificazione e di strutturazione capillare che accompagna l’azione legislativa e, prima ancora, l’organizzazione sociale che ne funge da base ispiratrice siccome sorretta attraverso il richiamo costante a “categorie” individualizzanti, si sia gradualmente perduta la capacità comunicativa funzionale all’espressione non solo del linguaggio, ma anche e soprattutto delle idee, il più delle volte “confuse” dai vari processi di eccessiva semplificazione semantica che normalmente accompagnano tematiche concettualmente complesse. In buona sostanza, e nell’ottica di far comprendere al meglio i termini strettissimi del ragionamento che mi accingo a condurre, è appena il caso di rilevare, e non sarà superfluo farlo, che il procedimento di cosiddetta “categorizzazione”, gradatamente affermatosi da qualche anno a questa parte, è divenuto un percorso mentale ordinario e a tal punto radicato che, inevitabilmente, capita di sentirsi proiettati nel rinvenire a tutti i costi singole “categorie”, financo (ma sarebbe meglio dire soprattutto) umane, anche laddove non se ne rinvengano affatto, o non sarebbe opportuno rinvenirne affatto.

Intanto, perché nel momento in cui si decida di voler “catalogare” ogni “fenomeno sociale” mediante il richiamo a categorie specifiche, inevitabilmente si “soffocano” le differenze esistenti tra quanti in quelle categorie si ritrovino ad essere inseriti in forza di parametri stabiliti arbitrariamente “aliunde”. Quindi, perché, viceversa, la necessità di procedere per distinzione in categorie (ma si intenda “minoranze”) induce, inconsapevolmente, quasi ne fosse un esito imposto, ad accrescere le divergenze esistenti tra appartenenti a “categorie/minoranze” diverse. Infine, perché siffatto modo di procedere, nel suo voler concepire la società ed i suoi componenti attraverso processi definitori in qualche modo radicali, favorisce, o può favorire, l’acuirsi della “discriminazione”, ossia di quella odiosa operazione di distinzione comunemente (purtroppo) portata avanti quale conseguenza ad un “giudizio preventivo” e/o ad una classificazione di dubbia valenza pratica e morale. Ebbene. In questo contesto, ed in ottemperanza alla Risoluzione del Parlamento Europeo risalente al lontano 2006 (la quale aveva chiesto agli Stati Membri di “assicurare che le persone ven (issero) protette da discorsi omofobici e da atti di violenza omofobica”), a mio modesto modo di considerare, si inserisce il cosiddetto disegno di legge Zan contro l’omotransfobia contenente, per l’appunto, “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”.

Stando all’interpretazione datane dai primi e più attenti commentatori, il disegno di legge mirerebbe ad estendere la legge Reale-Mancino dall’ambito del razzismo a quello dell’omotransfobia per poter punire, anche attraverso il ricorso al carcere, il quale, a mio avviso, dovrebbe sempre e comunque costituire l’“ultima ratio”, chi istiga a commettere, o commette, atti di discriminazione (da definirsi caso per caso) o atti di violenza per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”, e poter promuovere, di conseguenza, “la cultura del rispetto e dell’inclusione… in attuazione dei principi di eguaglianza e di pari dignità sanciti dalla Costituzione”. Nulla quaestio direi, salvo la necessità di procedere a talune precisazioni correttive di facile soluzione. Tuttavia, sono consapevole del fatto che non si possa neppure trascurare l’insegnamento antico, ma sempre attuale, tramandatoci dai grandi pensatori del passato. “Summum Jus Summa Iniuria” direbbe, infatti, ed ancora oggi, Cicerone nel farsi portavoce dell’esigenza di chiarire che l’utilizzo rigoroso e indiscriminato di un diritto in funzione parzialmente duplicatoria di altre norme esistenti, o la stessa applicazione rigida e unidirezionale di una norma di nuova elaborazione, può trasformarsi in una pericolosa ingiustizia se portata all’eccesso. La cavillosa elaborazione e la conseguente interpretazione delle leggi, ed il disegno di legge Zan non fa eccezione, può, insomma, ben produrre esiti di palese iniquità, e ciò accade quando la elaborazione giurisprudenziale ed il dibattito interpretativo susseguente volgano la loro attenzione sulla lettera più che sullo spirito del testo al quale solamente sarebbe doveroso, nel caso in esame, guardare. E questo accade comunemente in tutte quelle materie in cui, normalmente, non vi è una uniformità di visioni, ma piuttosto solo pluralità e divergenza di opinioni e di sensibilità individuali: e altrimenti non potrebbe essere, soprattutto allorquando, per un verso, i meccanismi “perversi” di strumentalizzazione politica trasformino una iniziativa legislativa dettata da una ineludibile esigenza morale pienamente condivisibile in un “pericolo” per la libertà di espressione perpetrato attraverso il paventato e l’irrealistico timore che le regole di nuova elaborazione possano finire per introdurre un abominevole reato di opinione, rendendo perseguibili come istigazioni alla discriminazione le manifestazioni di pensiero in difesa della famiglia eterosessuale, e/o comunque dissenzienti rispetto all’ideologia lgbt e, per altro verso, allorquando non resti che affidare comunque all’interprete il compito di individuare, caso per caso, il confine tra la condotta sanzionabile, siccome discriminatoria e lesiva della dignità morale della persona interessata, e la condotta legittima per essere, quest’ultima, la mera esternazione di un pensiero e/o di un convincimento intrinseco e radicato.

Ma allora, se così è, come di fatto sembra essere, si può ragionevolmente fare oggetto di biasimo un disegno di legge sicuramente ancora perfettibile, ma che ha il merito di voler presentare in forma chiara ed ordinata una materia in sé e per sé magmatica e confusa, anche solamente per le implicazioni definitorie legate al concetto di “identità di genere”, quale è quella dei conflitti “esistenziali” potenziali esistenti all’interno di una società pluralistica e variamente articolata? E si può, ancora ragionevolmente, fare oggetto di biasimo un disegno di legge che, nel suo non definire, e credo comunque erroneamente, i concetti di sesso, di orientamento sessuale, di genere, o di identità di genere, ha tuttavia il merito di riflettere l’attenzione sui rapporti tra diritto e morale resi sempre più controversi attraverso il pervicace ricorso alle distorsioni concettuali del linguaggio politico? La risposta è evidentemente conseguente se inserita all’interno di un contesto sociale nel quale, a ben considerare, il compito di sciogliere i conflitti giuridici sia strettamente riconnesso alla concezione della morale radicata nel pensiero polivalente dell’operatore e dell’interprete, quando non anche dei singoli consociati dotati di puro e semplice buon senso. Detto altrimenti, e forse più semplicemente, se è vero, come pare essere vero, che l’“identità”, nel caso dei soggetti omosessuali, ma in fondo il discorso vale anche nell’ipotesi dei soggetti eterosessuali, si esprime attraverso l’identificazione condivisa della appartenenza ad un determinato gruppo sociale, tuttavia appare altrettanto vero che i tratti salienti di quella riconosciuta identità possano mutare nel tempo, attenuandosi al cospetto di processi di “integrazione” gradatamente portati avanti attraverso operazioni complicate di maieutica ideologica (quale quella indotta dal disegno di legge Zan per l’appunto) che conducono, all’esito, a ritenere “normale” e “naturale” ciò che solo qualche tempo prima sembrava, ma solo apparentemente ed ingannevolmente, non esserlo.

Per questo appare doveroso prendere le distanze dal dibattito mediatico e soprattutto politico innescato dalla distorta interpretazione di un disegno di legge, che nelle sue linee essenziali ha il merito, morale prima ancora che giuridico, di offrire tutela specifica ai soggetti cosiddetti vulnerabili, ossia alle persone lgbt, a quelle con disabilità e alle donne, soprattutto allorquando esista una indiscutibile uniformità interpretativa giurisprudenziale nel ritenere che anche il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero ha una valenza relativa, ben potendo  andare incontro a doverose limitazioni nel momento in cui sia lesivo dei diritti e delle libertà altrui.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

© Riproduzione riservata