Si tratta veramente di violenza di matrice ideologica, oppure si tratta di puri e semplici balordi in preda alla disperazione che, nascondendosi dietro una bandiera politica qualunque, si fanno leciti di brandirla portandola a pretesto per riuscire a condurre a compimento disegni criminosi di tutt’altro fondamento?

Dalle minacce sui canali social a Giorgia Meloni, accusata di voler eliminare il Reddito di Cittadinanza, e quindi di “giocare” sulla disperazione dei ceti sociali più fragili ed esposti al bisogno, a quelle anarchiche al Primo Consigliere dell’Ambasciata Italiana in Grecia e sorella della candidata alla Segreteria del Partito Democratico Elly Schlein, Susanna Schlein, le ondate di malcontento espresse con l’uso della forza sembrano non accennare a placarsi. Quest’ultima, in particolare, sembra essere stata vittima dell’agire di un gruppo di anarchici solidali ad Alfredo Cospito oramai da circa cinquanta giorni in sciopero della fame nel carcere di Sassari, Bancali, per protestare contro il disposto dell’articolo 41 bis, inteso quale “regime di sterminio politico”.

La realtà che supera la fantasia, saremmo portati a commentare, e la circostanza si presta a fungere da chiaro pretesto per dare libero sfogo all’uso della forza quale strumento di affermazione sociale e di potere. Al di là del singolo episodio, è chiaro che ci troviamo dinanzi all’espressione non solo di un disagio sociale non più contenibile, ma anche di forme di protagonismo estemporanee disancorate da qualsivoglia ipotesi di contestazione ideologica. Sul punto non parrebbero esservi dubbi. Piuttosto, il dubbio, al di là delle motivazioni soggettive che inducono i singoli non organizzati ad agire, si pone nel momento in cui ci si trovi di fronte all’esigenza di comprendere se affrontare e disciplinare siffatte “manifestazioni” considerandole nella loro unicità personalistica, ovvero, e piuttosto, facendole ricadere nel contesto di un fenomeno più ampio ma comunque di più complessa qualificazione giuridica giacché, si sa, la responsabilità penale è pur sempre personale e come tale va trattata.

Intendiamoci meglio tuttavia: a stonare, perlomeno nel contesto dei singoli episodi richiamati, è proprio l’accostamento forzoso tra la “violenza”, intesa quale “azione volontaria, esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà”, e la “politica”, intesa invece come il “complesso delle attività che si riferiscono alla vita e agli affari pubblici di una determinata comunità di uomini”. Due concetti analiticamente e semanticamente distinti, ma che la storia passata e recente, assai spesso, ha potuto tramandarci come inevitabilmente connessi. Ma se è vero, come parrebbe essere vero, che la “politica” nasce proprio (o almeno così dovrebbe essere) dall’esigenza di porre un argine alla lotta generalizzata dei singoli, allora, probabilmente, le manifestazioni violente estemporanee o quanto meno non organizzate, di fenomeni criminali, potrebbero, forse, essere ispirate (o perlomeno si potrebbe essere indotti a crederlo) da uno smarrimento del ruolo che la “politica” sarebbe stata, e sarebbe, chiamata a ricoprire, siccome divenuta essa stessa incapace di fungere da autorità di regolazione e regolamentazione dei rapporti umani per non riuscirne ad interpretare i bisogni.

Lungi dall’idea di voler giustificare tali espressioni di malcontento, che si condannano senza se e senza ma, si tratta evidentemente di un ingranaggio disfunzionale che rischia di decentrare i termini di un ragionamento che necessiterebbe di indagini più profonde per essere inevitabilmente riconnesso ai meccanismi di comprensione del sociale e delle sue innumerevoli sfumature. In buona sostanza, e se volessimo soffermarci a rifletterci, il fraintendimento risiede nel fatto che le rivendicazioni portate avanti dai singoli soggetti agenti in verità nulla hanno a che vedere con i grandi modelli ideologici e teorici di riferimento (Destra o Sinistra) proprio in considerazione del carattere trasversale facilmente individuabile rispetto alla provenienza dei soggetti agenti e ai contenuti delle loro richieste, comunque difficili da inserire in una categoria di lotta di classe specificatamente intesa.

Gli episodi citati sono piuttosto rappresentazioni eterogenee e frammentarie complesse che nulla sembrano avere a che fare con la politica e le sue decisioni programmatiche. Per poter discorrere nei termini di disfunzione del sistema, sarebbe necessaria una vera e propria azione tumultuosa collettiva quale insieme omogeneo, nei fini, di soggetti plurimi ma interagenti l’un l’altro per il raggiungimento dell’obiettivo comune, rappresentato da un nuovo ordine sociale, più giusto possibilmente nella mente degli agenti, e maggiormente rispondente ai loro bisogni primari.

Nel caso specifico siamo ben lontani, e fortunatamente, dalle mobilitazioni di massa, ma l’indice di sofferenza dei singoli, comunque espressa, impone riflessioni profonde sul piano politico, siccome la loro eventuale trascuranza, ovvero pura e semplice condanna (che va comunque affermata), non sarebbe di aiuto a placare un fenomeno che ad ogni buon conto parrebbe rinvenire le sue radici in una condizione di malessere economico che va arginato con provvedimenti idonei a favorire la stabilità sociale e a consentire le pur minime condizioni di sopravvivenza. Non sembrerebbe trattarsi di ideologia ma di bisogno, e se così fosse, la sola rassicurazione sul punto di chi è chiamato a governare dovrebbe essere più che sufficiente ad evitare contestazioni barbare future. Fermo restando, e indiscutibilmente, che la violenza va sempre condannata, mai giustificata, per dover essere le forme di protesta varie ma pur sempre rispettose.

Ci stiamo avvicinando pian piano a forme di radicalismo esistenziale che, oltre ad essere prontamente arginato attraverso puri e semplici provvedimenti normativi di carattere sociale idonei, ovvero espressione di un welfare funzionante nelle sue espressioni basiche (e ci rendiamo conto che nel contesto contingente, con le misere risorse a disposizione semplice non è), andrebbero studiati e compresi per essere invero espressione di un mutamento sociale che andrà a condizionare la gestione politica e governativa degli anni a venire. Governare oggi significa soprattutto pensare a domani. Oggi è già forse troppo tardi, ma il domani deve ancora arrivare.

In buona sostanza, gli episodi recenti di malcontento, di matrice sociale o anarchica poco importa, non sono solo manifestazioni inconsce a tensioni temporanee, sono il germoglio di una frattura convenzionale in risposta alla apparente incapacità del sistema Governativo nel suo complesso di gestire il caos economico e sociale residuato dal biennio pandemico e dall’instabilità ingenerata dal conflitto russo-ucraino. Etichettare un fenomeno significa limitarlo, e discorrere nei termini della “violenza politica” specificatamente intesa non parrebbe opportuno. Si sarebbe forse più propensi a qualificare siffatti episodi quali riflesso di una mancanza di fiducia verso le Istituzioni latamente intese, rappresentate di volta in volta da espressioni soggettive differenti individuate quali comodi bersagli di protesta solo in ragione del ruolo ricoperto.

Il vero discrimine, come pure la soluzione al “misunderstanding” conoscitivo che ne è fuori-uscito, risiede solamente sul contenuto con cui si deciderà, sul piano squisitamente politico, di colmare lo spazio tra governanti e governati. Massima solidarietà dunque al nostro Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e al Primo Consigliere dell’Ambasciata Italiana in Grecia, Susanna Schlein, per le aggressioni subite. Occorre la massima cooperazione e comprensione tra Governanti e Rappresentanti delle Istituzioni in genere e Governati, perché solo la collaborazione costruttiva può sostenere la crescita e il benessere sociale. La violenza genera solo altra violenza e distruzione. Solo un rinnovato rapporto di reciproca fiducia può rappresentare la chiave di volta di un cambiamento soddisfacente. 

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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