Nel corso delle settimane appena trascorse, in seno a quello che avrebbe dovuto, e dovrebbe essere, il “Governo dei Migliori”, e non una sedicente “Unità Nazionale” condizionata nel “se” e nel “quando”, si è definitivamente consumato, tra gli altri, il rapporto incrociato, ed in qualche modo cordialmente ostile, che legava Davide Casaleggio, Presidente dell’Associazione Rousseau, al Movimento 5 Stelle nella sua nuovissima espressione soggettiva incarnata, sia pure non si veda ancora bene come, dall’ex Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte.

Le posizioni reciproche sono apparse fin da subito drasticamente inconciliabili presupponendo, l’una e l’altra, e come da più parti rilevato, una concezione del Movimento e della sua massima articolazione strumentale, la cosiddetta piattaforma Rousseau, decisamente antitetica ed in larga parte, per certi versi, de-naturalizzante.

Se per Giuseppe Conte, infatti, “la democrazia rappresentativa, per quanto in crisi, non appare eliminabile” siccome, peraltro, “soprattutto (quella) in forma digitale, (avrebbe rappresentato) la novità più importante, l’aspetto più rivoluzionario introdotto dal Movimento” delle origini, tuttavia, proprio quella stessa forma di democrazia, diversamente da quanto aveva ritenuto di considerare Davide Casaleggio, andrebbe trattata con la dovuta cautela e precauzione siccome “esterna” e “altra” rispetto alla formazione politica che ha inteso ieri, e intenderebbe oggi governare, e siccome “frutto di una tecnologia che (non) sarebbe neutra”. Nulla quaestio sul punto: la riflessione dell’ex “Premier” si presenta del tutto legittima e puntuale soprattutto se concepita nell’ottica di un processo di “rinnovamento” finalisticamente indotto che non può pretendere di presentarsi e di legittimarsi al cospetto degli interessati in forma strumentale e subordinata rispetto ai metodi del passato. Diciamo, piuttosto, e più semplicemente, che il “cambiamento” era nell’aria da diverso tempo, e necessitava unicamente del giusto periodo di maturazione per manifestarsi in tutta la sua cruda evidenza, non solo nell’ambito dei rapporti interni al Movimento, dilaniato dalle sue molteplici “correnti”, ma anche sul piano del “relazionismo” esterno ad esso e del riflesso (in) condizionato rispetto alle formazioni politiche di più stretta vicinanza.

I problemi che si affacciano all’attenzione di quel che resta di una formazione politica già populista per “necessità” e in cerca di ulteriore definizione, sono tanti, e tutti parimenti rilevanti: intanto, capire quale può essere lo spazio di sopravvivenza concessole al di là, ed oltre, di quella specifica connotazione ideologica di “populismo” (di destra) che fino all’altro ieri la aveva caratterizzata assicurandone il successo elettorale e mediatico; quindi, l’esigenza di conservare la stretta affiliazione della propria base elettorale evitando di privare i simpatizzanti e gli elettori del loro originario senso di adesione identitaria fondato sull’impulso, sulla percezione e sulle passioni collettive esorcizzandoli ed astraendoli per ciò stesso dai processi di inclusione e di partecipazione politica diretta; inoltre, la altrettanto ineludibile esigenza di colmare la mancanza di “alternative”, nei termini strettissimi di “policies”, le quali rischiano di rendere irriconoscibile il neo-formando Partito Politico di matrice sinistro-centrica nell’ambito della “governance” nazionale ed internazionale; infine, la assoluta necessità di colmare il fallimento recente della propria frenetica esperienza politico-istituzionale (che rinviene una delle sue massime espressioni tangibili proprio nelle recenti esternazioni di Beppe Grillo), attraverso la elaborazione di una idea di partito che sia ancora una volta “alternativo” ma di sicura derivazione democratica di sinistra in grado di contrapporsi, pur ambendo a farne parte in senso commutativo riformista e progressista, al nuovo formando “establishment” dominante.

I NODI DA SCIOGLIERE – Il primo interrogativo da sciogliere concerne, e non potrebbe essere altrimenti, i termini consapevoli e sensati di una possibile coalizione tra il neo-formando Movimento 5 Stelle o che dir si voglia a guida di Giuseppe Conte, ed il Partito Democratico di Enrico Letta che possa evidenziarsi come valida ed efficace opzione facoltativa ad una Destra certamente acerba e poco raffinata, ma ancora forte sul piano elettorale. E ritornando ancora più a monte, proprio il rinvenimento di una soluzione a quest’ultimo interrogativo, presupporrebbe il preliminare scioglimento di taluni altri nodi interpretativi irrisolti necessario per comprendere quale sia il percorso da perseguire. Come mai nel corso degli ultimi anni la gran parte dell’elettorato di sinistra ha lasciato il Partito Democratico per abbracciare l’ideologia penta-stellata? Come mai le recenti esperienze di governo, caratterizzate da alleanze in qualche modo improbabili (giallo-verde, giallo-rossa), hanno finito col riverberarsi in senso negativo solo sul Movimento 5 Stelle e non anche sul suo attuale leader Giuseppe Conte, determinandone un calo percentuale considerevole sul piano del consenso?

ALCHIMIE POLITICHE – Questi sono gli interrogativi volutamente ignorati dagli attuali dirigenti della ri-fondanda Sinistra Nazional-Popolare, siccome a volerli realmente considerare nei loro effetti concreti, si dovrebbe pervenire ad una consapevolezza scomoda che richiederebbe articolati meccanismi di accettazione da parte della base elettorale di riferimento prima ancora che da parte delle varie articolazioni di partito. Consapevolezza che si sostanzia, o quanto meno dovrebbe sostanziarsi, nel riconoscimento e nell’accettazione di una identità ineludibile tra quel che resta del Partito Democratico da una parte, e quel che resta del Movimento 5 Stelle dall’altra, i quali, lungi dal poter sopravvivere nei termini e nei confini di una coalizione di governo necessariamente bicefala, dovrebbero piuttosto ragionare all’interno del perimetro della “fusione pilotata” diretta al rinvenimento naturale della loro reciproca piena coincidenza e conformità ideologica. Si tratta di assecondare un sottile gioco di convergenze e di alchimie politiche, le quali, se inopinatamente ignorate, appaiono del tutto idonee a rimettere in discussione le ragioni stesse della alleanza spianando la strada a Matteo Salvini, a Giorgia Meloni, e alla sua incarnazione di Destra coerente capace di esprimere il valore del dissenso nel pieno rispetto del contraddittorio democratico interno.

La crisi delle democrazie dell’Eurozona si fonda, infatti, su una domanda inevasa di intervento pubblico, e solo “Coloro”, o meglio “Colei” che riusciranno (o che riuscirà) a colmarla potranno godere nel prossimo futuro di uno spazio certo sul piano parlamentare e governativo. Attualmente, e purtroppo, nel voler continuare ad assecondare l’alternanza ideologica tra il “populismo” re-inventato dei penta-stellati e l’“elitismo” dei “Democratici”, le due formazioni politiche faticano, parimenti, nell’uscire dal vortice, variamente ed inconsapevolmente interpretato, del “radical chic” permanendo in un limbo di vuoto concettuale che impedisce, agli uni e agli altri, di fare la differenza all’interno di un “Governo Tecnocratico” che, naturalisticamente e paradossalmente, costituisce l’humus privilegiato per l’affermazione di un rinnovato socialismo statalista e riformista che necessita di ritrovare la sua dimensione esistenziale nel quotidiano. L’UNICA VIA – L’idea di un Partito Unitario tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle è ancora in via di maturazione, ne sono consapevole, e tante sono le interpretazioni possibili, ma diversamente da quanto i più sarebbero indotti a ritenere, questa è l’unica via da perseguire per la ri-fondazione di un Centro-Sinistra che possa dirsi veramente tale, a trazione unica di Giuseppe Conte quale espressione vivente del “nuovo” che avanza. Questo, secondo il mio parere, il futuro prossimo, e post Mario Draghi, della Sinistra Italiana nell’ottica del superamento della falsa contrapposizione tra democrazia post partitica e partitismo puro.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato  – Nuoro)

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