Insomma, “mai una gioia”. L’anteprima dei nominativi in lista per le politiche del 25 settembre prossimo venturo è il riflesso, e neanche troppo sbiadito, dell’elitarismo partitico.

Premiati tutti coloro che avrebbero “lavorato per il Partito” nel corso degli anni. Beata ingenuità: e noi che credevamo che i vari rappresentanti politici dovessero prestare la loro opera nell’interesse esclusivo del Popolo Italiano siccome, è oltremodo chiaro, che molto spesso, per non voler dire sempre, l’interesse spicciolo di “bottega” potrebbe collidere, e spesso collide fortemente, con l’interesse diretto e specifico della generalità dei consociati che sui propri rappresentanti decide di riporre la propria fiducia.

Detto in parole povere, il popolo italiano sembra restare escluso, oggi più di ieri, da ogni meccanismo di scelta dei propri rappresentanti in Parlamento. Circostanza, quest’ultima, tutt’altro che di scarso momento, se solo si considera lo stretto legame che dovrebbe intercorrere tra il potenziale candidato chiamato a concorrere ed il suo territorio di riferimento.

Per fare un esempio concreto: che cosa c’entra la candidatura dell’ex Presidente del Senato Marcello Pera nel collegio senatoriale del Nord Sardegna? Ottimo politico, nulla da ridire, ma quale è il suo legame con il territorio? Perché i Sardi dovrebbero votarlo? In che modo, la sua azione politica ha mai interessato le problematiche del popolo sardo? Vero è che l’attuale legge elettorale rappresenta l’alfa e l’omega di ogni stortura, tanto più se applicata all’esito del drastico “taglio” del numero dei parlamentari, che ha contribuito a ridurre in maniera determinante la rappresentatività popolare elidendo in radice la possibilità di scegliere i rappresentanti con almeno il voto di preferenza.

Indubbiamente i potenziali aspiranti alla seggiola sono designati dai vertici dei vari partiti attraverso “elenchi” pre-confezionati a monte di modo che l’elettore che si appresti ad esprimere il proprio voto per un certo partito, si ritrovi costretto a scegliere il nominativo imposto dall’alto che gli piaccia oppure no. Se questa è “democrazia” nel senso più vero del termine allora, forse, qualcosa non torna. Siamo arrivati, senza neppure rendercene conto, al paradosso dei paradossi. Scegliere di esprimere la propria preferenza ad un certo partito piuttosto che ad un altro, si traduce, né più né meno, con la accettazione supina e acritica del candidato indicato in sede di pre-compilazione della lista per essere, quello stesso candidato, espressione diretta ed immediata del leader del momento. Se ci soffermassimo “a vivisezionare la mosca”, traducendo il senso delle riflessioni appena proposte in deduzione pratica, dovremmo giungere ad una amara conclusione. Quella per cui il voto di ciascuno di noi conterebbe poco o nulla nel contesto dei laboriosi meccanismi che sembrano governare l’accesso al Parlamento Italiano: il voto sembrerebbe essere divenuto il “mezzo” che “giustifica il fine”.

Eppure la “democrazia” è una conquista imprescindibile e non si può, né si deve mai, darla per scontata solo perché gestita, quanto meno in apparenza (il beneficio del dubbio non deve mai negarsi), dall’alto. Il “voto”, in sé e per sé considerato, rappresenta una manifestazione imprescindibile di libertà, nonostante tutto. E far valere la “democrazia” si traduce nell’esercizio del diritto di voto, che deve tuttavia essere pieno ed incondizionato e mai preordinato attraverso scelte pre-confezionate.

La campagna elettorale sta entrando nel vivo, ma non riesce, e probabilmente neppure riuscirà strada facendo, ad esprimersi efficacemente a causa dell’effetto “boumerang” che rischia di travolgerla: ossia l’effetto specifico del “retrogusto” amaro della mancata condivisione delle scelte. Ad essere mancata è la “democratizzazione” del processo decisionale che avrebbe potuto garantire la parità di chance nell’accesso alle cariche pubbliche e, soprattutto l’imparzialità quale indipendenza del potenziale candidato rispetto ad interessi meramente “parziali”. Detto altrimenti: sarebbe stata cosa buona e giusta rassicurare il popolo degli elettori in merito alla salvaguardia dei principi democratici financo all’interno dei singoli partiti, al fine di azzerare il pericolo della predominanza delle oligarchie interne ai medesimi.

Per intenderci: considerati i meccanismi del “Rosatellum”, considerato l’intervenuto “taglio del numero dei Parlamentari”, non sarebbe stato più opportuno, per non voler dire, maggiormente “democratico”, procedere alla scelta dei potenziali candidati che avessero avanzato la propria candidatura attraverso il sistema del “sorteggio”? Quale altro sistema, se non quello del “sorteggio”, sarebbe stato in grado di garantire l’alternanza nell’accesso alle cariche pubbliche? Non dico in assoluto, ma quanto meno nelle condizioni date nel contesto contingente di riferimento diretto ed immediato. Perché, diciamocela tutta: se la carica dei parlamentari uscenti, grosso modo tutti riconfermati per le urne del 25 settembre, sono gli stessi che avrebbero già “fallito” (si conceda l’espressione a solo titolo argomentativo) e le cui scelte politiche avrebbero determinato il Presidente Sergio Mattarella ad imporre la figura di Mario Draghi, cosa mai potrebbero offrire di meglio al Paese tra poco meno di un mese?

Mi rendo conto che siamo ben lontani dall’Atene di Pericle, ma ogni tanto, “mutatis mutandis”, può essere utile ricavare qualche prezioso insegnamento dall’antichità classica.

Stiamo attraversando, sul piano istituzionale, il periodo di massima disaffezione popolare verso i meccanismi regolatori del sistema partitico ed inevitabilmente, il processo di costituzione degli organi di indirizzo politico non può non restarne coinvolto. Ci troviamo nel pieno di una crisi di legittimità e di legittimazione, e non è certo ignorando il problema che chi è chiamato a governare può pensare di farlo efficacemente. All’indomani del 25 settembre, chiunque riesca a prevalere, sarà chiamato ad offrire risposte concrete ad un Paese in ginocchio. Questo alla fine della fiera è il problema che dovrà trovare la sua pronta soluzione. Al di là della propaganda, chi andrà a governare, sarà in condizione di rinvenire una formula utile all’interesse concreto del proprio popolo? Oppure ci ritroveremo, anche domani, a lamentarci dell’operato politico dei prescelti neo-eletti? Le premesse non sembrano essere rosee: continua a crescere il divario tra cittadinanza e istituzioni. E non si può ricondurlo semplicemente ad un atteggiamento qualunquista di protesta in danno di una classe politica inconsistente. Lo si grida oramai da più parti: si tratta di una mancanza di fiducia motivata e consapevole verso le istituzioni e i massimi sistemi nutrita dalle classi sociali più disagiate e deboli che, inevitabilmente, restano escluse da qualsivoglia meccanismo partecipativo.

Continuando di questo passo, non si potrà restare sorpresi se il dato dominante della prossima tornata elettorale sarà l’astensionismo quale espressione di protesta estrema verso la “privatizzazione” dei meccanismi democratici. “Chi vivrà vedrà”.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

© Riproduzione riservata