La sua è una delle tre firme in calce alla Costituzione italiana. Insieme a quella del Presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, del Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, nella Carta delle leggi compare anche quella di Umberto Terracini, Presidente della Costituente. È lui che il 29 gennaio del 1948 presiede l’assemblea di Montecitorio quando l’Isola di Sardegna si trasforma in Regione Autonoma e Speciale. Spetta a Terracini, poco prima delle quattordici, concedere la parola a Luigi Einaudi, Ministro del Bilancio, la “bestia nera” della Sardegna. Quello in discussione è l’ultimo capoverso del calvario statutario della Regione. È Einaudi in persona, il futuro Presidente della Repubblica, a formulare l’emendamento chiave dell’intero impianto del “patto” costituzionale tra lo Stato e la Sardegna.

Il colpo finale

Un vero e proprio colpo finale da assestare senza indugi alla già flebile Autonomia Sarda. In votazione c’è l’articolo 56 dello Statuto. In pratica il dispositivo che prevedeva di modificare il Titolo terzo dello Statuto, per essere chiari il capitolo dei soldi e dei trasferimenti economici alla neonata Regione, con legge ordinaria «su proposta del Governo o della Regione». Ci sono due emendamenti aggiuntivi da dirimere con un voto dell’Assemblea Costituente. Il primo lo ha presentato il Ministro in persona. Chiede che le leggi ordinarie, quelle che modificano le risorse destinate alla Sardegna, possano essere approvate con un semplice e innocuo «sentita la Regione». L’altro emendamento, invece, lo firma Gaspare Ambrosini, di Favara, in Sicilia, democristiano, costituzionalista, padre del riparto tra Regioni, Province e Comuni. È lui il relatore dello Statuto Sardo. La proposta emendativa che presenta è diametralmente opposta a quella del Ministro: le leggi ordinarie sulle risorse finanziarie – è scritto nell’emendamento - si possono approvare solo «d’intesa con la Regione».

«Sentita» la Regione

Nemmeno a dirlo, come se Einaudi avesse posto un voto di fiducia su quel passaggio chiave, l’Assemblea approva la formulazione ministeriale del «sentita la Regione», praticamente il niente. Si chiude così il calvario “costituente” della Regione Sarda. Emilio Lussu, il Capitano della “Sassari”, sa di aver contrastato sino in fondo le spinte centraliste e anti-autonomiste dell’élite di Stato. Il suo rientro in Sardegna, però, è amaro. È consapevole che lo Statuto appena approvato è un riconoscimento costituzionale imponente, ma percepisce che i ritardi maturati, soprattutto nell’Isola, hanno privato la Regione di poteri e risorse per spezzare «quell’incantesimo di isolamento di cui i sardi sono prigionieri». Un riconoscimento quasi pro forma che non affronta, però, le ragioni incontestabili della Specialità Autonomistica. Non è un caso, infatti, che le due prime Regioni per le quali si era deciso, sin dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, di riconoscere una specifica e ampia autonomia, poteri e risorse, fossero state proprio la Sicilia e soprattutto la Sardegna. «Regioni speciali perché Isole», argomenta Lussu, in quella storica perorazione per l’invocata approvazione, congiunta e univoca, dei due statuti, quello sardo e quello siciliano.

Einaudi & Lussu

Già 75 anni fa, però, si toccava con mano lo strisciante fastidio di Stato nel riconoscere all’Isola quegli strumenti indispensabili per recuperare il divario sia economico che sociale legato alla sua doppia insularità, quella vissuta verso il resto del Continente e quella che si consumava con l’isolamento di porzioni immense del territorio sardo. Lo scontro titanico tra Einaudi e il Capitano Lussu in questa vicenda costituzionale colpì il cuore vero della Questione Sarda: riconoscere alla Sardegna non solo il sacrificio di vite umane versate per la guerra di Stato, ma anche e soprattutto per quello svantaggio “permanente” della sua condizione insulare. Un vulnus dirimente nel rapporto con i palazzi di Roma che ha perennemente considerato la Sardegna una dépendance dello Stato senza mai porsi il tema di un divario, quello sì, da misurare e compensare. In questa storia “Speciale” la Regione sarda si è trovata perennemente contrastata dallo Stato non solo sulle ragioni economiche, ma anche sul piano delle competenze e dei poteri. Una Specialità di rango costituzionale, che resta, però, incompiuta sotto ogni punto di vista, violando nella sostanza stessa quel patto “costituente” del ’48.

L’assalto del Nord

Oggi, 75 anni dopo quella approvazione, si riapre la ferita di quell’incompiuta costituzionale. L’avvento del nuovo Governo ha riproposto, senza indugi, la questione delle “autonomie differenziate”, per essere più espliciti, la richiesta di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna di ottenere da Roma più poteri, più competenze e soprattutto più soldi. Il tema non è essere d’accordo o meno alla concessione di maggiori autonomie per le regioni forti, anzi fortissime del Nord, la questione è più alta e con implicazioni ben più rilevanti di un mero trasferimento di competenze e risorse. In ballo c’è quello che i giuristi della Carta delle leggi definiscono una vera e propria minaccia per il Patto costituente. È qui che la conquista statutaria strappata da Lussu e dai costituenti nel ‘48, seppur limitata e monca, acquisisce oggi il valore assoluto delle prerogative costituzionali “speciali” riservate alla Sardegna. In pratica, l’aver sancito che nella Costituzione italiana sono previsti due livelli di regioni, quelle speciali e ordinarie, pone un vincolo assoluto non modificabile se non con una riforma costituzionale. Una gerarchia di poteri, di risorse e di competenze che pone le regioni a Statuto speciale in un gradino, almeno costituzionale, superiore alle regioni ordinarie. Certo, ora all’art.116 della Costituzione sono previste nuove forme di autonomia “differenziata” per le Regioni ordinarie che dovessero rivendicarle. Una possibilità, però, che non può e non deve in alcun modo infrangere quella gradualità sancita a livello costituzionale. Il testo del disegno di legge predisposto dal Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, il leghista Roberto Calderoli, appartiene più ad un arsenale di guerra che alla buonagrazia delle istituzioni. Incurante di ogni conseguenza, cancellando bon ton e cortesia, la bozza distribuita a piene mani dal Ministro leghista, come se fosse un trofeo di caccia, irrompe con la grazia di un carro armato nel già flebile equilibrio tra poteri e competenze previsto dal quadro costituzionale italiano.

Le carte sarde

Il tentativo subdolo che si insinua nei palazzi di Roma e non solo di far passare come fuori dal tempo le Regioni a Statuto Speciale, come concessioni romantiche di un’epoca passata, si scontra con i forti, chiari e immodificabili presupposti della Specialità sarda. Che piaccia o meno, la Sardegna è l’unica Regione Speciale che può contare su tutti e tre i presupposti della sua riconosciuta autonomia: è un’Isola lontana, ha una densità demografica bassissima ed è abitata da una comunità “di parlanti una lingua minoritaria”. Tutti elementi che in 75 anni di Autonomia non si sono modificati. Isola era, Isola lontanissima è rimasta, densità demografica bassissima era ed è rimasta, lingua minoritaria prima ed ora. Un dato è certo, quella Specialità incompiuta non solo non ha esaurito il suo compito, ma proprio ora diventa elemento imprescindibile per riaprire il confronto serrato con lo Stato, partendo da un dato misurabile e non mitigabile, la sua insularità. È fin troppo evidente che la proposta Calderoli, da perserguire attraverso una legge ordinaria, comporta un impatto diretto e indiretto sull’intero impianto costituzionale. Il rischio è che le tre regioni del Nord conquistino con una legge ordinaria, più poteri, più competenze e soprattutto più risorse delle Regioni ritenute dalla Costituzione “Speciali”. Il ragionamento è semplice: se le Regioni ordinarie “differenziate” del Nord facessero dieci passi in avanti, le Regioni speciali, la Sardegna tra tutte, resterebbero ancora più indietro, venendo meno a quel principio costituzionale che riconosceva loro, teoricamente, più poteri e risorse per un riequilibrio permanente dei divari strutturali e infrastrutturali. Per l’Isola questa è l’ultima chiamata per porre con forza, a costo di impugnative davanti alla Corte Costituzionale, la questione dirimente dell’attuazione del riequilibrio insulare, auspicato prima dai Costituenti, poi da una norma del federalismo fiscale, la n.42 del 2009, e da un principio costituzionale appena varato dal Parlamento. La partita, dunque, è alta. In ballo ci sono i valori dell’Autonomia, il diritto dei sardi e della Sardegna ad un trattamento equo, alla pari di qualsiasi cittadino italiano ed europeo, senza ulteriori discriminazioni.

(3.continua)

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