Venerdì 5 luglio è stato depositato in Cassazione il quesito referendario abrogativo della Legge Calderoli avente ad oggetto l’Autonomia Differenziata. Il quesito, per quanto sia stato possibile apprendere dagli organi di stampa, recherebbe la formulazione riportata di seguito: «Volete Voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86, “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”?». Semplice e chiaro dunque nella sua enunciazione letterale, e, al quale, si dovrà rispondere, nell’ipotesi in cui a richiederlo fossero cinquecentomila elettori ovvero cinque Consigli Regionali, con un “si”, oppure con un “no”.

A portare avanti la questione soprattutto le forze politiche del centro-sinistra, ma non sembrano essere mancate posizioni ispirate a senso di preoccupazione per gli effetti della riforma nelle regioni del sud, anche da parte di taluni esponenti di centro-destra. Circostanza, quest’ultima, probabilmente da sola sufficiente ad alimentare più che una perplessità se non proprio sul piano ideologico, quanto meno sul piano empirico e fattuale. In altre parole: se con la attuazione della cosiddetta autonomia differenziata lo Stato, potrà, a richiesta di parte, procedere nel senso della attribuzione a una Regione a Statuto Ordinario, della autonomia legislativa sulle materie di competenza concorrente e, in limitati casi, di competenza esclusiva del primo, non potrebbe corrersi il rischio (la formula dubitativa appare doverosa) di vedere vanificata (se così possa dirsi) la ratio del principio che, a suo tempo, anni orsono, aveva condotto al riconoscimento delle Regioni a Statuto Speciale, quale ad esempio la Sardegna? Non potrebbe corrersi il rischio di dare forma ad un Paese a “differenti velocità” con altrettanto differenti potenzialità di sviluppo e di crescita?

Anche perché, pure a tutto voler considerare e concedere, non si potrebbe fare a meno di rilevare che sul piano della fruizione dei servizi, il Paese, come evidenziato da più parti, già all’attualità, parrebbe presentare, nonostante la distribuzione del gettito fiscale sia garantita su base nazionale in considerazione della necessità specifica, disomogeneità importanti.

Cosa accadrebbe se ciascuna Regione che facesse richiesta di autonomia potesse poi trattenere al suo interno il proprio gettito? L’interrogativo sembrerebbe tutt’altro che banale, e probabilmente non potrebbe ritenersi sufficiente il tentativo di risolvere la questione semplicemente sostenendo che la riforma offrirebbe l’opportunità alle Regioni del Sud di perseguire maggiore ricchezza senza dover attendere il contributo statale responsabilizzando, così, i propri Amministratori. Intanto, perché, se dal 2001 ad oggi non si è mai attuata in concreto la Riforma del Titolo V della Costituzione, probabilmente siffatta titubanza potrebbe essere stata ispirata proprio dalla esistenza e/o persistenza di grandi differenze economiche e sociali ancora sussistenti nel perimetro nazionale, non muovendo, le varie Regioni italiane, da posizioni paritarie di uniforme distribuzione di ricchezza utile a garantire una altrettanto soddisfacente ed uniforme fruizione di servizi. Quindi, perché se si volesse discorrere nei termini di una “Repubblica delle Regioni”, quindi in buona sostanza di una Repubblica di tipo Federale, allora probabilmente (il condizionale appare doveroso), siffatto argomentare, non potrebbe che principiare da una valutazione di fondo sul significato della “specialità” e sulle prospettive, nel divenire prossimo e futuro, della stessa, soprattutto laddove si voglia considerare che il principio di uguaglianza che caratterizza la condizione di ogni cittadino, dovrebbe porsi, e si pone, come valore politico ed etico utile a sostanziare la cosiddetta liberaldemocrazia. Infine, perché, la circostanza che fino a questo momento solamente talune realtà regionali siano state accomunate da una condizione di “autonomia speciale”, presupporrebbe ancora oggi, e soprattutto in considerazione dei potenziali effetti della Legge Calderoli, una attenta riflessione non solo su quelle che furono le motivazioni profonde che indussero alla loro istituzione, ma anche quale possa essere la loro funzione nel contesto di un rinnovato sistema di “autonomia differenziata” all’interno del quale si andrebbe a realizzare un percorso politico di rilievo territoriale, per così dire, distinto nettamente da quello nazionale.

Per intenderci: come sarebbe meglio tutelata in conseguenza della attuazione della Legge Calderoli la cosiddetta identità periferica di talune Regioni come quelle, ad esempio, insulari?

Non sarebbe peraltro utile, nel contesto contingente, trascurare la posizione della Commissione Europea in argomento, la quale, nell’immediato, e secondo quanto riportato dai media, non ha mancato di rilevare che la “attribuzione di competenze aggiuntive alle regioni italiane” potrebbe comportare “rischi per la coesione e per le finanze pubbliche”.

Sul piano politico, e per altro verso, la Legge Calderoli ha avuto quale effetto diretto ed immediato la ricompattazione delle forze di opposizione, tutt’altro che scontata. Circostanza, quest’ultima, che se opportunamente apprezzata dai Partiti di riferimento, e trovando uno sbocco favorevole il proposto quesito referendario, potrebbe andare a mettere in discussione la compattezza della attuale maggioranza di Governo anche in considerazione degli effetti diretti ed indiretti sul Paese dei nuovi equilibri di forza che si andranno a determinare in Europa.

Per l’intanto, l’iniziativa per l’avvio di una consultazione popolare appare una scelta utile.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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