Le urne d’autunno, nella specie quelle relative alle Città capoluogo di Regione (Bologna, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste), saranno l’occasione per apprezzare quel che resta della Politica, nelle sue varie e “formande” articolazioni partitiche, nonché dell’azione governativa strettamente considerata all’indomani dell’emergenza sanitaria, fino ad oggi caratterizzata, nel suo interminabile sviluppo temporale, dall’invadenza e dal protagonismo del governo e dei suoi organi (ai quali è comunque mancata non tanto e non solo la capacità previsionale, ma anche l’intelligenza di comprendere come le politiche sociali siano una opportunità e non uno sperpero improduttivo) rispetto alla posizione defilata e secondaria del parlamento.

Nel contesto di una “competizione pandemica” in cui lo “sfruttamento” politico del morbo ha rappresentato, gioco-forza, e purtroppo, la linea direttrice comportamentale alla quale fare esclusivo ed opportunistico riferimento, una considerazione su tutte andrà a guidare il ragionamento che ci si accinge a condurre: è stato il mancato governo politico dell’emergenza a tutti i livelli territoriali, prima ancora che quest’ultima evenienza drammatica in quanto fatto oggettivo in se e per se considerato, ad aver determinato l’incapacità delle istituzioni di offrire risposte lucide e coerenti alla crisi. E di sicuro non basta (diversamente da quanto mostrano di ritenere, illudendosi, i diversi Leader di Partito) “riaprire” le Piazze, considerate dalla destra salviniana quali sedi privilegiate del confronto politico, e/o esaltare il meccanismo democratico delle cosiddette “Primarie” tanto caro alla sinistra, per recuperare le percentuali di consenso perduto e riconquistare la fiducia di una Popolazione gravemente provata dagli “affanni” legati alla gestione della quotidianità. Sarebbe necessario, piuttosto, da ambo le parti, e più concretamente, rendersi parti attive nell’interpretare l’intervenuto “cambio di paradigma”, il quale, all’evidenza, va via via accantonando l’idea soggettivistica di “prevalenza” (anche e soprattutto a livello elettorale) a tutto vantaggio di una concezione inedita e meno utilitaristica della politica intesa come “cura” e come “sostegno”.

A significare, nel caso specifico, che solo il Candidato Sindaco espressione della formazione partitica (quale essa sia) che riuscirà a proporre programmi concreti (e perseguibili nel breve periodo) di “cura” e di “sostegno” economico e sanitario per assicurare la buona e trasparente amministrazione della propria città, potrà garantirsi la vittoria. La circostanza può quasi apparire scontata, eppure, a conti fatti, considerato il contegno retorico, “abitudinario”, ed oramai desueto dei protagonisti in campo, i quali continuano a strumentalizzare i meccanismi dialettici in funzione propagandistica, sembra non esserlo affatto. Il black out ingenerato dal Covid-19 ha indotto una inversione di tendenza: in buona sostanza, se per un verso ha orientato le scelte dell’elettorato verso la “moderazione” e la “riflessione”, dall’altra ha innescato il corrispettivo effetto di “depolarizzazione” della competizione politica, la cui conseguenza, se positivamente interpretata, potrebbe verosimilmente introdurre non solo un percorso di ricostituzione e di contestuale rafforzamento della gestione “politica” (e non più tecnica) del Paese a livello nazionale, ma addirittura, un parallelo percorso di nuova formazione di gruppi “centristi” solidi (quale fu, un tempo, la compianta e comunque irripetibile Democrazia Cristiana) per essere, questi ultimi, ontologicamente riluttanti ai “cambiamenti” e alle diverse incognite che essi sono soliti trascinare dietro se.

Se questo stato di cose fosse solo un fatto congiunturale, allora sarebbe destinato a dissolversi con il progressivo superamento della fase emergenziale. Ma, se come io ritengo, siffatto fenomeno assumesse (e pare già averla assunta) una connotazione “strutturale”, siccome idoneo a garantire una maggiore efficienza e concretezza sul piano decisionale, allora i meccanismi para - democratici che fino ad oggi hanno condizionato le scelte governative, sarebbero destinati, come già è accaduto, peraltro, con la formazione dell’attuale Governo Draghi, ad affrontare un percorso di crisi profonda idoneo ad ingenerare una netta trasformazione del panorama partitico, all’interno del quale, evidentemente, la sterile contrapposizione tra centro-destra (con o senza trattino, federato o unito poco importa) e centro-sinistra (anch’esso con o senza trattino) non avrebbe più senso e ragione d’esistere, come di fatto, già a tutt’oggi, non sembra esistere considerata la promiscuità delle ultime tre esperienze di governo. Intanto, perché la fisionomia politica che in Italia si è particolarmente inclini ad attribuire alla “Destra” e alla “Sinistra” è in fase di evoluzione, nei fatti prima ancora che nella stessa elaborazione ideologica.

Quindi, perché la circostanza, in se e per se scarsamente significativa, spiega, tuttavia, “il perché” sia apparso come necessario, soprattutto a livello amministrativo territoriale, il ricorso al coinvolgimento massiccio di Candidati provenienti dal mondo “civico” che poco o nulla abbiano avuto, o abbiano, a che vedere con le “opache” dinamiche di governo. Infine, perché il reale elemento di discrimine e di insuperabile dualismo tra le due contrapposte (ex) coalizioni, ossia le accese istanze federaliste che furono, nel passato recente, aspirazione irrinunciabile della Lega di Matteo Salvini, lungi dal rappresentare oggi l’obiettivo primario di quel medesimo partito (in apparente evoluzione), non costituiscono più ambizione neppure della stragrande maggioranza degli amministratori locali, quale che sia la loro appartenenza politica e/o regione di provenienza. Stiamo assistendo, in poche parole, ad un processo disordinato di “rimescolamento” dello scenario politico che, negli esiti delle prossime competizioni elettorali di rilievo amministrativo che si terranno in autunno, potrà rinvenire risposte interessanti in merito al prossimo futuro della “partitocrazia” (se essa ancora un posto sarà destinata ad averlo) a livello nazionale, la quale, verosimilmente, non può più pensare di nascondere la propria inadeguatezza, dietro le mentite spoglie di un “civismo” poco convinto e di circostanza che, nel lungo periodo, potrebbe costituire un serio problema sul piano del confronto democratico in ragione della mancanza di un profilo identitario politico di riconoscimento.

Occorre prendere atto che il “bipolarismo” spersonalizzante non può più costituire la chiave di interpretazione del sistema politico, il quale deve ripopolarsi di “identità partitiche” precise e qualificanti alle quali l’elettorato potrà fare riferimento e nuovo affidamento.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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