A ddio. Dunque Matteo Renzi lascia il Partito Democratico, con la prima scissione della storia che viene raccontata come “consensuale” dal suo autore, e definita come “una tragedia” dal segretario che la subisce. Una singolare e inconciliabile diversità di opinioni. Secondo Renzi in fondo saranno tutti contenti, secondo Nicola Zingaretti entrambi i partiti pagheranno un prezzo enorme. Sembra la celebre barzelletta di quel ragazzo innamorato, ma molto ottimista: «Ho una fidanzata!». E gli amici gli chiedono: «Ma lei lo sa?».

Tuttavia, battute a parte, questa asimmetria di percezioni rivela il clima davvero paradossale con cui il Pd sta vivendo lo strappo più incredibile della sua storia. Nell'albero genealogico della sinistra le rotture sono state innumerevoli e noi ingenuamente pensavano di averle viste tutte: la scissione di Livorno del 1921 nasceva da un dilemma epocale, perché il giovane Antonio Gramsci e i comunisti di inizio secolo volevano “fare come in Russia” e abbandonavano il vecchio Partito Socialista turatiano.

La scissione di Palazzo Valentini, nel 1947, si produsse perché i socialdemocratici di Giuseppe Saragat se ne andavano dal Psi e volevano stare nel Patto Atlantico. Nel 1964 il Psiup abbandonó a sua volta il Psi perché non voleva i governi di centrosinistra nati per volontà di Aldo Moro. Nel 1968 il gruppo de Il Manifesto lasció il Pci perché “la Cina era vicina” e nacque il Pdup. Alla fine del Secolo Breve, nel 1989, il Pci si divise sul dilemma “restare comunisti o diventare social-democratici”, e ci mise due lunghi e drammatici anni a separarsi. (...)

SEGUE A PAGINA 2
© Riproduzione riservata