A desso si fa sul serio e un pezzo d'Italia chiude. Nel momento di maggiore vulnerabilità europea, con i mozzaorecchie che attaccano a Vienna, sperando di chiuderci in una manovra a tenaglia, usando il virus come una sponda (da un lato il terrore, dall'altro il terrorismo), il Covid ha di nuovo preso in pugno un lembo delle nostre vite, comprimendo ancora una volta le nostre libertà, la nostra fragile economia.

Avevamo scritto su queste pagine - solo pochi giorni fa - che sarebbe stato “un lockdown a rate”. Non pensavamo di essere presi alla lettera: Dpcm dopo Dpcm, contagio dopo contagio, terapia intensiva dopo terapia intensiva, le maglie dell'emergenza ancora una volta si stringono. La scuola dell'obbligo è ormai chiusa (e forse si poteva evitare), il coprifuoco nazionale si allarga e le regioni di prima fascia (per contagi e stress sanitario) saranno sottoposte a provvedimenti fortemente limitativi degli spostamenti e delle attività. Nascono nuove zone rosse in cui si resterà confinati e le attività (servizi essenziali a parte) verranno sospese. Nel disastro, si afferma per la prima volta un criterio decisivo, sopratutto per la Sardegna: il Paese viene diviso in tre fasce in base ai criteri di diffusione del Covid. Questa è una buona notizia perché - per la prima volta - le chiusure e gli interventi non saranno indifferenziati su tutto il territorio. Non è un mistero che molti governatori erano contrari a questa scelta, in nome del discutibile principio “tutti o nessuno”. Per fortuna è passato un criterio più intelligente e chirurgico.

M a perché questo accadesse abbiamo assistito ad un balletto Stato-Regioni di due giorni: chiudi tu, no, chiudo io. Il paradosso di questo Dpcm, però vuole che (dati i termini di partenza del confronto e i rapporti di forza di queste ore) questa “rata” per adesso sia molto meno esosa di quanto avrebbe potuto essere. Le cronache e i retroscena di ieri ci parlano ancora - anche questo lo avevano già raccontato - di un governo dove si confrontano due anime, com due visioni diverse sulla gestione dell'emergenza. Quella più vicina al ministro Roberto Speranza, al Comitato Tecnico Scientifico e ad un parte importante del Partito Democratico (leggi il capo delegazione al governo, Dario Franceschini) avrebbe preferito provvedimenti più drastici. Quella raccolta intorno al premier Giuseppe Conte - come già accade da un mese - ha sostenuto fino all'ultimo la necessità di non “chiudere” il Paese per non penalizzare ulteriormente l'economia.

Il punto di caduta alla fine si è concentrato sul punto di partenza del coprifuoco nazionale. I suoi sostenitori lo volevano alle 18.00 di sera, poi il braccio di ferro ha abbassato l'asticella alle ore 22.00: quattro ore di libertà, o rischio, a seconda di come si vede il problema. Tuttavia questo non è un dibattito da banalizzare: non ci sono dei buoni e dei cattivi sui due lati di questo tavolo negoziale, non ci sono il giusto e lo sbagliato in questo dilemma, verità assolute, nemici della patria o angeli custodi. Questo è il dibattito che attraversa il Paese, le nostre famiglie, noi stessi. Siamo compiutamente calati in un dramma collettivo in cui ogni passo che si fa, sul piano inclinato della crisi, comporta la scelta tra alternative che si escludono, settori che muoiono o vivono dei pro e dei contro.

Mai come oggi l'alternativa tra salute e lavoro è diventata un prezzo. La spiegazione è molto semplice: il virus ha corso, e sta ancora correndo più veloce di noi. È più veloce delle nostre parole: più veloce della macchina organizzativa dello Stato, più veloce della nostra infrastruttura sanitaria. Abbiamo già scritto che stavolta non era inevitabile: avremmo potuto approntare tracciamento, tamponi, medicina di territorio per difendere la trincea dei pronto soccorso. Ma adesso, questa legittima critica è già superata dagli eventi. Le misure del Dpcm precedente, quelle di ieri sera hanno dieci giorni per produrre degli effetti. Poi, se questo non basterà a far calare i contagi, arriveremo all'ultima rata, quella più crudele, quella che ci porta nel lockdown totale. Abbiamo dieci giorni di speranza per verificare se i più pessimisti si sbagliano.

LUCA TELESE
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