C i sono tante pistole che ballano nel saloon di Palazzo Chigi, ma sono tutte scariche. Giuseppe Conte avverte: «A gennaio ci sarà una verifica della maggioranza». Matteo Renzi ammonisce: «Basta con le liti o le elezioni arriveranno davvero!». Luigi Di Maio aggiunge: «Andiamo avanti, ma serve una lista delle priorità condivisa da tutti».

Basterebbe questo bollettino di guerra, tratto da qualsiasi telegiornale di ieri, per capire che non c'è ancora pace nel governo giallorosso, come non c'era pace nel governo gialloverde. Il nodo della conflittualità interna si trasferisce da un esecutivo all'altro come una maledizione o come un virus, facendo ricordare il morbo comune a tutti governi della seconda e terza repubblica: Umberto Bossi contro Silvio Berlusconi nel tempo della vecchia Casa delle libertà, Fausto Bertinotti contro Romano Prodi nel tempo del vecchio Ulivo, Gianfranco Fini contro il Cavaliere nell'era del Pdl, Di Maio contro Salvini nella breve stagione del “governo del cambiamento” che si è conclusa questa estate, tutti contro tutti oggi, nell'età del dialogo tra M5s e Pd zingarettiano.

Tuttavia, sotto la facciata declamatoria, l'accordo sulla manovra è davvero chiuso. M5s e Pd hanno fatto in tempo a presentare anche emendamenti comuni, tra cui quello che ha fatto più rumore è stato quello che puntava a colpire i cosiddetti furbetti della seconda casa che usufruiscono due volte del beneficio prima casa (non si paga l'Imu) intestando fittiziamente due case diverse a due diversi coniugi.

I l governo giallorosso ha trovato una difficile quadra sul nodo più spigoloso, la vicenda della plastic tax e della sugar tax posticipandone ulteriormente - rispetto alle prime bozze - i costi e i tempi di introduzione.

Tuttavia questa ricomposizione della tregua armata appare fragile. E questa difficoltà non è dovuta tanto agli imprevisti del voto alla Camera e al Senato (su cui apponendo la fiducia non dovrebbero crearsi problemi) quanto per una scadenza che in linea teorica con il Parlamento non ha nulla a che vedere. Le armi degli alleati che minacciano la crisi, infatti, sparano a salve o vengono esibite per intimidire i gonzi: il Pd dice di non aver paura del voto (ma certo non lo desidera), il M5s non ne parla (ma come è noto lo teme), Renzi non lo esclude (ma con questa legge elettorale per lui sarebbe una catastrofe, e al Senato rischierebbe addirittura di non essere rieletto).

Le pistole che vengono puntate in queste ore su Palazzo Chigi, dunque, sono tutte scariche. Il vero problema, infatti, non sono la manovra o i sondaggi, ma le elezioni in Emilia Romagna. Stefano Bonaccini ha presentato anche ufficialmente la sua candidatura, il suo logo con la silhouette

fatto di barba e gli occhiali a goccia stilizzati, ed è dalla sua sfida nelle elezioni regionali con la leghista Lucia Borgonzoni che dipende la tranquillità del governo. Se Bonaccini vincerà anche Conte sarà più forte, se perderà tutto il governo si troverà in grande difficoltà, per un fatto di immagine che rischia di diventare un fatto di opinione. Su Bonaccini, insomma, il quadro si complica. In caso di sconfitta quel che ora si scrive “Emilia Romagna” si leggerà “crisi”.

LUCA TELESE

GIORNALISTA E AUTORE TELEVISIVO
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