C 'era una volta in cui in Italia dicevi “Drive in” e ti venivano in mente i film americani degli anni '50, oppure Ezio Greggio, Enrico Beruschi e Carmen Russo: adesso scrivi “Drive in” e leggi coronavirus.

Punto è che l'impennata dei contagi è arrivata a quattromila, e purtroppo era prevedibile. Ma non era per nulla inevitabile, invece, il corredo colpevolistico-moralizzatore con cui alcune autorità sanitarie (e politiche) la stanno accompagnando. Molti - cito ad esempio il professor Massimo Galli, che dice «paghiamo alcune leggerezze estive» - suggeriscono che sia colpa nostra. E anche il ministro Roberto Speranza, purtroppo, come diversi presidenti di Regione (non parliamo di Vincenzo “lanciafiamme” De Luca), usano il racconto di “Quota quattromila” contagi toccata ieri (contagi, non malati), e le nuove norme di distanziamento appena varate, con una sorta di minaccia, quasi paternalistica, che suona così: «Poi se arriva un nuovo lockdown non vi lamentate, perché ve lo avevamo detto».

È davvero un modo curioso di affrontare questo nuovo capitolo dell'emergenza. In primo luogo perché gli italiani (a parte eccezioni che qui abbiamo ampiamente stigmatizzato) hanno affrontato le vacanze senza stravizi, e hanno fatto in sostanza quello che le autorità sanitarie avevano prescritto: visto che era permesso prendere navi, aerei e traghetti, si sono imbarcati. In secondo luogo: anche in Germania, guarda caso, ieri si sono toccati quattromila contagi fra i tamponati.

M a nessuno a Berlino ha detto: “Cari tedeschi, da adesso per voi la pacchia finisce”. Punto terzo, ma primo per importanza: a fronte dei sacrifici dei cittadini (tanti, e innegabili, anche oggi) siamo davvero sicuri che il sistema-paese stia funzionando? Il governo aveva promesso i banchi che non sono arrivati in tempo («Entro il primo ottobre saranno nelle classi», mi disse sicuro il commissario Arcuri), in Lombardia non avevamo voluto comprare nemmeno i normali vaccini anti-influenzali e poi li hanno pagati cinque volte di più (30 euro invece che cinque!), a Roma e a Milano le file per i drive-in di tamponatura (ad una purtroppo ho dovuto partecipare pure io) stanno diventando un fenomeno di costume, dei nuovi terrificanti happening che invadono la città con le loro code sterminate. Peggio ancora per chi quelle file le fa a piedi (ad esempio molti anziani senza automobile) e che nell'attesa si deve fare il segno della croce, nella speranza di non contagiarsi mentre cerca di sapere se è stato contagiato.

E dunque mi chiedo: siamo sicuri che questo sistema-paese (qui non voglio distinguere fra Stato e Regioni, fra Istituto superiore di sanità ed Asl) che rimprovera i suoi cittadini di leggerezza con tanta severità, stia dimostrando di saper fare la sua parte? Noi giornalisti abbiamo scritto per mesi, e in modo quasi unanime, che il professor Andrea Crisanti ha “salvato” il Veneto con la sua macchina da monitoraggio slegata dal vincolo dei reagenti chiusi. Un sistema, fra l'altro super economico, perché costa 2,5 euro a test invece che 30. Crisanti aveva elaborato un piano che moltiplicava per dieci quel successo, ma nulla da fare: non è stato preso in considerazione dallo stesso governo che glielo aveva chiesto, e il risultato è che oggi facciamo fra 100 e 200mila tamponi al giorno, a trenta euro l'uno, e purtroppo non bastano (ogni nuovo laboratorio Crisanti style si sarebbe ammortizzato in una settimana).

Ieri, prima di scrivere questo editoriale, ho chiamato il professore e gli ho chiesto: «Perché secondo lei non hanno applicato quel piano?». Crisanti ha fatto un sospiro amarissimo e mi ha risposto: «Sono molto dispiaciuto, ma il punto è che non lo so: intorno ai tamponi è nato un mercato, ed è difficile metterlo in discussione».

In compenso Francesco Vaia, il direttore sanitario dell'istituto Spallanzani, ieri dichiarava: «I cittadini devono capire che i tamponi non sono una terra promessa, non vanno considerati una meta!». Con tutto il rispetto, il senso di questa frase mi sfugge: perché mai un cittadino o uno studente che hanno un contagiato vicino, in ufficio, o in classe, dovrebbe farsi quarantenare senza nemmeno avere la certezza del tampone? Riecco dunque il doppiopesismo tutto borbonico dello Stato pasticcione che riemerge dietro questo balletto querulo. In Italia le autorità civili sono molto severe quando devono chiedere, ma molto generose quando devono autoassolvere se stesse. E questo purtroppo non è un problema filosofico, perché intanto il virus si fa beffe di tutti e continua in quel che sa fare meglio: gareggia con i parrucconi, i baroni, gli sceriffi, i viro-moralisti e gli azzeccagarbugli. Ma va più veloce di loro.

LUCA TELESE

GIORNALISTA

E AUTORE TELEVISIVO
© Riproduzione riservata