Una squadra che non cede
Enrico PiliaI segnali ci sono. Perché vai a Genova e comandi la partita (ma perdi), sfidi il Sassuolo e ti manca un centimetro - padron, un minuto - per riemergere (e pareggi). Il Cagliari comincia la sua terza vita: la prima è finita presto, fra infortuni, virus ed esperimenti. La seconda si è persa insieme al girone d'andata, un incubo che durava da sei partite. Il campionato dei rossoblù, se gli indizi sono prove, è ripartito ieri pomeriggio. Una domenica uggiosa, in uno stadio diventato troppo grande per una squadra che sta ancora cercando la sua identità. Il Cagliari si piega, finisce in ginocchio, ma non si spezza. Un calcione di troppo, qualche contatto proibito, una palla che rimbalza sulla linea prima che l'incredibile Cragno la spazzi via, poi la zuccata di Joao Pedro - il miglior brasiliano d'Europa, magra consolazione - fa provare al tifoso e alla squadra una sensazione che sembrava sepolta in soffitta. E poi la paura, la stanchezza, i crampi allo stomaco e quella distrazione puntuale e fatale, una delle poche, ieri, l'uomo che ti scappa a sinistra e la butta dentro mentre l'arbitro ha già il fischietto in bocca. Abbiamo capito che non è l'anno del Cagliari, diciamo che i segnali sono chiari, ma è palese che questo gruppo stia cercando di non sprofondare, non se lo può permettere anche per la cifra tecnica che porta in giro per l'Italia.
E poi c'è lui, Eusebio Di Francesco, a bordo campo lo stile è di Conte (quello dell'Inter), l'integralismo è tutto suo, gli occhi iniettati di sangue e quella botta a fine gara che digerirà fra sei mesi.