S e esistono amuleti, qualcuno li ha tirati fuori intorno alle 18.50 di sabato, quartiere di Sant'Elia, Cagliari. Con effetti interessanti sulla partita in corso. Perché viene difficile pensare che tu compri tre giocatori, entrino e si rompano, i primi due subito e - sempre nella stessa Arena - sul ginocchio del terzo, giovane e bello, ci cammini sopra un avversario. E poi, nell'unico maldestro, fortunoso tentativo di andare in porta, il Parma superi Cragno con un colpo di testa irripetibile.

Girava male, malissimo, in quei minuti, poi l'amuleto giusto, le facce delle grandi occasioni, il gruppo che riparte dal fondo pinneggiando verso la superficie, ed è arrivata la luce, quella che ha acceso un ragazzo potente e gentile come Pavoletti. Il Cagliari ha indossato l'armatura e allora tutto è diventato a colori. Onore a Maran, che ha sempre creduto a questa (ri)trasformazione, a una gara d'attacco contro chi può punirti ripartendo, con quell'abitudine italianissima di buttare a terra il contropiedista migliore (citofonare Gervinho) quando sta partendo. Bene, benissimo, con l'impietosa curva che randella squadra e società nonostante tre punti color diamante: ci sta, l'innamorato deluso è una brutta bestia.

Il Cagliari assomiglia a una clinica ma c'è solo una medicina che guarisce tutti, quella del successo, della fiducia. L'ambiente Cagliari era sotto un treno, l'altra sera, rileggetevi l'intervista al diesse Carli per capire che aria tirasse. Serviva un episodio, una botta che finisse con quattro lettere. È andata, ma siamo solo all'inizio di quattordici finali. La squadra esiste, nessuno si senta escluso.
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