C artoline da Firenze: freddo, freddo glaciale, zero punti e la solita, tradizionale fragilità. Il Cagliari frana, ma lo fa lanciando segnali - timidi - di vita. Prova a non perdere, predica un'inattesa prudenza, ma quando osa, si propone, cerca di “buttarla dentro”, puntualmente le prende. Abbiamo assistito, ieri sera, a una partita che sembrava uno spareggio, la paura di sprofondare ha avuto il dominio sulla fantasia, la sfacciataggine, quella che si chiama voglia di vincere anche se non hai il profilo giusto per provarci. Poi c'è il rigore che non segni, c'è un portiere col barbone che le prende tutte e proprio quando stai cominciando a pregustare un ricco pareggio, o magari l'inatteso blitz, subisci (in contropiede) un'infilata tremenda.

Il Cagliari è negli occhi del suo allenatore, indifendibile numeri alla mano (nelle ultime dieci giornate i rossoblù sono ultimi in classifica), ma con gli occhi fiammeggianti, con quell'incontrollabile voglia di farcela ma senza sapere come. «Dobbiamo lavorare, lavorare, lavorare», sussurra un furibondo DiFra, che sa di avere la società dalla sua parte («ne usciremo tutti insieme») ma che schiera la quattordicesima formazione diversa su diciassette partite, che spesso nella seconda parte ha dovuto rivedere le sue scelte, che ha inculcato ai giocatori una mentalità - provare a vincere sempre - che questa squadra non riesce a “chiudere”, sul campo. È sotto accusa anche lui, seppure sia rimasto stritolato da alcune circostanze di cui non ha alcuna responsabilità. (...)

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