L a libertà di giocare dovrebbe essere intoccabile. Libertà di muoversi, di vincere, di confrontarsi con un altro. Poi arriva un'epidemia mondiale, il vero grande cambiamento storico dei nostri giorni, e perfino quelle piccole, vitali libertà vengono cancellate. Chi ha nostalgia del calcio, e della tv che ci regala ogni dettaglio, ogni labiale, probabilmente ha dentro casa un adolescente.

Un bambino, una ragazzina, strappati al loro sport e rinchiusi in casa, su una sedia, il divano, senza la scuola ma gli occhi fissi su un tablet - per chi ce l'ha - e la faccia degli insegnanti dall'altra parte. Una clausura senza latitudini, che alberga nelle regioni duramente provate da migliaia di morti o in una terra come la nostra, la Sardegna, violata solo di striscio dal virus. C'è il grande calcio che non gira più, il basket degli americani, il Giro d'Italia messo in un angolo, l'atletica e le sue Olimpiadi spazzate via dalla nostra estate. Ma non solo quello è sport, libertà, confronto. I riti quotidiani dei piccoli atleti sono stati dimenticati e divorati da un'emergenza che ha temporaneamente spento un mondo, un "settore", silenziando le interminabili partite a calcetto, le mattine domenicali sui campi, le gare di pattinaggio nei paesi, il minibasket e il volley della ragazze. Normalità sarà anche ritrovare quei ritmi, il grande e felice contorno dello sport di vertice, quello di ministri e manager. Sì, le pay tv non hanno pagato l'ultima rata, i positivi nelle squadre di Serie A continuano a comparire, ma vuoi mettere con i drammi, gli amori, i cinque a tutti nelle finali studentesche? Speriamo che, in sicurezza, i ragazzi ritornino a correre e a soffrire, lo sport è (anche) roba loro.
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