K obe Bryant è stato l'icona, il simulacro vivente a cui aggrapparsi per chi aveva mancato l'epopea di Michael Jordan. I cinquantenni di oggi alla fine degli anni '90 erano i reduci di MJ e il testimone stava passando a un ragazzo dal cuore italiano, figlio di Joe, uno che nella nostra Serie A arrivò dopo aver segnato 10 mila punti nella Nba. Le spalle larghe di Kobe hanno raccolto l'eredità di Jordan e di Magic Jhonson, facendo innamorare i ragazzini. E diventando il simbolo della squadra più amata del mondo - i Lakers - perché soltanto lì avrebbe voluto giocare. Lo disse al boss dei Lakers, Jerry West, l'omino che vedete palleggiare nel logo della Nba: «Giocherò a Los Angeles, altrimenti vado in Europa». E così andò, dopo la chiamata di Charlotte. Dalla scuola alla Nba senza passare dall'università, privilegio per pochissimi, soprattutto per lui, dall'ego smisurato e dalla maniacale mentalità vincente. Un maschio Alfa doppio, lo stesso Dna di Jordan, uno con cui ha scambiato un paio di frasi a muso duro nella prima All Star Game in cui si sono trovati di fronte. L'abbiamo rivisto in queste ore, quel dialogo magnetico fra due superstar, passaggio di consegne fra generazioni di eroi.

Un illuminato giornalista di Sky Sport, Alessandro Mamoli, ha disegnato perfettamente la sensazione che in tanti abbiamo avuto appena appresa la notizia, domenica sera, in pieno delirio calcistico. Dieci minuti di apnea, l'assoluta incapacità di realizzare, perché ci sono persone, icone, simboli che “non possono” morire, soprattutto così, con una figlia fra le braccia, inghiottiti dalla nebbia e dal fuoco. Kobe - che si chiamava così perché i genitori avevano mangiato quella pregiata carne giapponese poco prima della sua nascita - è stata una storia meravigliosa e dovunque andasse a raccontarla, dalla Cina all'Europa, tutto si fermava. Come accade adesso, il pallone in un angolo, immobile. Sarà dura realizzare che il Mamba e la sua Gianna non ci sono più.

ENRICO PILIA
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