C i lasciamo alle spalle un anno, un altro frammento di secolo dove la violenza dentro il calcio si è presa la scena. Non solo mazzate in curva o agguati in stile militare fuori dagli stadi. Ma anche, e soprattutto, quella violenza gridata, scritta e osannata fra le tribune, gli smartphone e i social. La furia cieca da scatenare contro chi non sta dalla nostra parte sportiva, la violenza verbale contro chi appartiene a un'altra etnia, fenomeno che purtroppo ha sfiorato anche il nostro stadio, nella gara con la Juve del gennaio scorso. Diventa normale che un giovane padre a San Siro insulti il senegalese del Napoli con il figlio di otto anni a fianco, il quale - ci mancherebbe - lo imita col sorriso sulle labbra. Sì, ci si indigna, perfino grandi chef (napoletani) si dipingono la faccia con un cerone scuro per solidarizzare col calciatore sbeffeggiato. Ma lo spettacolo continua, lo show “normalizza” ogni passo in avanti di questa comunità oscura degli stadi, dove vale tutto, ancora e per chissà quanto.

Ma in questo periodo così nero per il pallone, c'è una società, e un pubblico, che stanno cercando - con i fatti - di invertire la marcia di una macchina che oggi produce fango, insulti e valori (si chiamano ancora così?) negativi. Il Cagliari, con la Scuola di tifo, è il primo club in Italia e fra i pochissimi in Europa ad aver riservato un settore dello stadio - fra la curva sud e la tribuna principale - ai bambini, scolari innamorati della squadra rossoblù e pronti a urlare incessantemente un “For-za Cagliari” commovente. (...)

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