I n realtà, la sfida che ci aspetta nel 2019 non è ideologica (c'è anzi una grande e diffusa voglia di liberarsi dalle ideologie, di svestirsi di esse) e neanche tra conservatori e progressisti (mai come in questo momento ci troviamo di fronte schieramenti compatti nel dichiararsi progressisti, a parole, per seguire poi, nei fatti, direttrici di marcato e resiliente conservatorismo), ma è tipica di un periodo di dopoguerra.

La Sardegna è tornata a essere, infatti, “Territorio arretrato”, come definita e categorizzata dall'UE, quasi priva di economia sostenibile propria (ricordiamo che la maggior parte del nostro PIL, peraltro povero e staccato dalle medie italiane ed europee, deriva da un'industria petrolifera e da una di armi; e ricordiamo che anche i bisogni primari, come per esempio il mangiare, sono soddisfatti, in pesante percentuale, da prodotti importati). Una terra in progressivo spopolamento e degrado, con risultati di scolarizzazione, disoccupazione, disagio e povertà tipici, appunto di un'economia di dopoguerra.

La sfida di cui dovremmo essere coscienti non è dunque definibile sul piano delle tattiche (cosa fare per la salute, i trasporti, l'insularità), ma sul “progetto di vita” che vogliamo darci, per noi e le generazioni future, un progetto che inevitabilmente debba muoversi fuori dalla gabbia in cui siamo andati a cadere. Una gabbia storica, indubbiamente, ma anche derivante dall'abito mentale che proprio le ideologie, a iniziare da quella savoiarda, ci hanno cucito e forzato addosso, sintetizzabile nel bipolo mortale “carattere e destino”. (...)

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