N elle ultime due settimane è emerso un dibattito tanto surreale quanto pericoloso. Ha cominciato il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, in relazione al recente G-20 tenutosi in collegamento dall'Arabia Saudita. Al summit si è discusso di un documento dell'Institute of international finance dove si sostiene che il debito pubblico globale quest'anno, per la prima volta, supererà il Pil del 101,5% e che in almeno trenta Paesi esso sarà maggiore del Pil.

È chiaro, ha commentato Paolo Mieli sul Corriere della Sera, «che quei debiti contratti per la battaglia contro il virus e la creazione del vaccino andranno sterilizzati, resi senza scadenza, o più direttamente cancellati. Passata la crisi sanitaria, nessun Paese, impegnato come sarà nella ricostruzione della propria economia, vorrà sentir parlare di oneri da rimborso o da pagamento di interessi».

David Sassoli ne ha approfittato per mettersi in mostra, avanzando l'ipotesi di abbuonare ai Paesi maggiormente indebitati come l'Italia almeno quella parte del debito causato dalla pandemia. Immediata la risposta della presidente della Bce, Cristine Lagarde, nel ricordare che l'articolo 123 del Trattato Ue vieta la sola presa in considerazione di un'ipotesi del genere. Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, dal canto suo, è stato altrettanto perentorio nel dare a Sassoli un altolà per il suo commento inopportuno e fuori luogo.

Per un po' è sembrato che la schermaglia finisse lì, ma si è trattato solo di una tregua.

C osì nel fine settimana l'idea che il debito pubblico creato dagli Stati per far fronte alla pandemia possa essere cancellato è stata fatta propria anche da un autorevole esponente del governo, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro, dirigente di primo piano dei 5 Stelle. La Bce, ha detto in un'intervista a Bloomberg, per aiutare i Paesi a riprendersi «dovrebbe considerare la cancellazione dei bond sovrani acquistati durante la pandemia o l'estensione perpetua della loro scadenza».

Come mai, si chiede Mieli, «qui in Italia si è diffuso una sorta di keynesismo nostrano a norma del quale i problemi economici si risolverebbero escogitando ogni possibile trucco per contrarre debito, debito e ancora debito. Il quale debito dovrebbe generare risorse per lo sviluppo. Uno sviluppo prodotto per magia che, a sua volta, ripagherà il debito. Semplice, no?».

Secondo Fraccaro, che interpreta una mentalità largamente diffusa in Italia, la Bce non avrebbe problemi a finanziare il debito pubblico dei Paesi dell'euro, in quanto «potrebbe comprarlo senza limiti stampando tutti i soldi che vuole. Può continuare ad acquistare obbligazioni sovrane e consentire agli Stati membri di investire, proteggendoli dal mercato». Parole che possono alimentare i sospetti verso il nostro Paese il cui debito pubblico viaggia verso il 160% del Pil e al quale l'Ue dovrebbe destinare 209 miliardi del Next Generation Ue. Non a caso il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, ha seccamente preso le distanze da Fraccaro: «La posizione del governo è sempre la stessa: noi consideriamo che i debiti per definizione vanno rimborsati e sono sempre rimborsati. E che la strategia italiana per la cancellazione del debito e la sua riduzione si fa attraverso un percorso di finanza pubblica che è incentrato sulla crescita».

Fraccaro e quelli che la pensano come lui non si rendono conto che i margini di manovra che ha la Bce nell'acquistare debito italiano hanno due limiti: il primo, politico, di mantenimento dell'equilibrio con l'acquisto di titoli degli altri Paesi dell'Unione monetaria e il secondo, economico, di fiducia dei mercati. Se questa viene meno, riparte lo spread, che annulla i vantaggi della monetizzazione del debito.

Il problema di fondo, perciò, resta quello della fiducia che il debito sia sempre ripagato e che, prima di mandare messaggi sbagliati ai mercati, occorre dimostrare di essere sempre credibili. Al riguardo, ad esempio, in questo momento è assolutamente necessario saper presentare all'Unione Europea un Recovery plan serio e rigoroso.

BENIAMINO MORO

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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