M ario Draghi passerà alla storia come il presidente della Banca Centrale Europea (Bce) che nel luglio del 2012 ha sconfitto la crisi dell'euro e dei debiti sovrani europei con una frase diventata famosa: «Whatever it takes» (a qualsiasi costo), che passerà anch'essa ai libri di storia. Intendeva dire che la Bce avrebbe fatto tutto il possibile per contrastare la crisi finanziaria e salvare l'euro, costasse quel che costasse. Aggiungendo, di seguito alla frase famosa, anche una velata minaccia: «… e vi garantisco che sarà sufficiente».

La minaccia era rivolta agli speculatori al ribasso contro i debiti sovrani di Italia e Spagna, che puntavano al default del debito dei due Stati dell'Unione monetaria europea (Ume) e, di conseguenza, allo sfascio dell'euro e dell'intera Ume. L'allusione era riferita alla possibilità che ha qualsiasi banca centrale, quindi anche la Bce, di stampare moneta senza limiti quantitativi, per comprare, ugualmente senza limiti, il debito sovrano dei due Stati in quel momento presi di mira dai mercati, sostenendone le quotazioni e per ciò stesso impedendone il default.

In quel momento, gli spread dei titoli pubblici a 10 anni erano saliti oltre 500 punti in Italia e 600 in Spagna; e valori altrettanto elevati si registravano per la Grecia, il Portogallo e l'Irlanda. Il rischio di una rottura dell'euro era davvero incombente, ma la minaccia di Draghi venne presa sul serio dai mercati.

G li speculatori, che sino al giorno prima puntavano allo sfaldamento della moneta comune e al fallimento dei debiti sovrani dei Paesi più esposti alla speculazione, ritirarono le loro posizioni ribassiste: mai sfidare apertamente una banca centrale, perché si perde sempre. La Bce avrebbe potuto inondare di liquidità i mercati monetari, come poi ha effettivamente fatto col quantitative easing (Qe), salvando insieme la moneta comune e i debiti sovrani.

Nel 2019, in occasione della Laurea honoris causa in Economia conferitagli dall'Università Cattolica di Milano, Draghi ha letto una prolusione che molti hanno interpretato come il suo testamento intellettuale. Al centro del suo discorso ha collocato la conoscenza, il coraggio e l'umiltà. «Oggi viviamo in un mondo in cui la rilevanza della conoscenza per il policy making è messa in discussione. Sta scemando la fiducia nei fatti oggettivi, risultato della ricerca, riportati da fonti imparziali; aumenta invece il peso delle opinioni soggettive che paiono moltiplicarsi senza limiti, rimbalzando attraverso il globo come in una gigantesca eco», ha sostenuto Draghi in quella occasione. «La lezione della storia è invece che le decisioni destinate ad avere un impatto duraturo e positivo sono basate su un lavoro di ricerca ben condotto, su fatti accuratamente accertati e sull'esperienza accumulata». Ciò che conta è la competenza fondata sulla conoscenza, che rimane essenziale per capire la complessità.

La conoscenza, proseguì Draghi, non è però tutto, ci vuole anche una buona dose di coraggio, perché anche le migliori analisi «non danno quella certezza che rende una decisione facile: la tentazione di non decidere è frequente», ma anche il non agire rappresenta una decisione, che potrebbe rivelarsi peggiore del decidere e portare al tradimento del mandato ricevuto. Infine, il lavoro deve sempre essere caratterizzato dall'umiltà, che «discende dalla consapevolezza che il potere e la responsabilità del servitore pubblico non sono illimitati, ma derivano dal mandato conferito» dal potere politico.

Ora Draghi avrà modo di farsi guidare dagli stessi principi anche nel ruolo di capo del governo italiano. La sua missione più urgente è quella di trasformare il Recovery plan in un nuovo piano di rinascita, con competenza, coraggio e umiltà. Ciò implica l'approvazione di riforme scomode, sgradite ai politici di professione e ai principali gruppi d'interesse. I fondi europei non sono pochi, tuttavia il compito del futuro governo Draghi non è solo quello di spendere i soldi, ma di farlo in modo da attivare un nuovo processo di sviluppo del Paese.

BENIAMINO MORO

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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