N elle sue dichiarazioni programmatiche in Parlamento, Mario Draghi ha incluso anche la riforma del fisco, destinata a «segnare un passaggio decisivo». Il premier ha citato l'esempio della Danimarca, che nel 2008 nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento.

Il progetto prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L'aliquota marginale massima dell'imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata. Per Draghi non è una buona idea cambiare una tassa alla volta, perciò ha sottolineato la necessità di «una revisione profonda dell'Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività».

La riforma del fisco è a sua volta strettamente legata alla riforma previdenziale, che prese nel loro insieme costituiscono la struttura portante del bilancio pubblico statale. Al riguardo, sono particolarmente utili i dati contenuti nell'ottavo Rapporto del centro studi e ricerche itinerari previdenziali, curato da Alberto Brambilla. A fronte di una spesa pubblica totale di 871 miliardi, il costo complessivo delle prestazioni sociali, il cosiddetto welfare state (pensioni, sanità e assistenza sociale), è ammontato nel 2019 a 488 miliardi, pari al 56% dell'intera spesa statale.

È il livello più elevato da quando questa rilevazione viene fatta (ultimi 12 anni). Se rapportiamo la spesa alle entrate effettive (841 miliardi) ne deriva che per il welfare spendiamo il 58% di quanto lo Stato incassa ogni anno. Siamo quindi ai primi posti nel mondo per spesa sociale, anche se i partiti politici e anche molti opinionisti sembrano non accorgersi di questa situazione squilibrata e chiedono in continuazione sempre più sostegni a carico dello Stato, tutti ovviamente sulle spalle degli attuali e dei futuri contribuenti.

Secondo i dati del Rapporto, i pensionati, che nel 2018 avevano registrato il numero più basso degli ultimi 25 anni a 16.004.503, nel 2019 sono aumentati nuovamente di 30.662 unità, anche se in misura minore rispetto a quanto ci si aspettasse per l'entrata in vigore di Quota 100 e di anticipi pensionistici vari (APE, opzione donna, pensionati precoci).

Quota 100, pertanto, oltre a non aver aumentato l'occupazione come aveva propagandato la Lega, al contrario ha interrotto la fase di riduzione del numero di pensionati che durava dal 2008. Nel 2019, e presumibilmente anche nel 2020, a contenere l'aumento è stato soprattutto l'elevato numero di cancellazioni delle pensioni baby e dei prepensionamenti. Tuttavia, nonostante tale aumento, il rapporto attivi/pensionati, fondamentale per un sistema pensionistico a ripartizione come il nostro, ha toccato il livello di 1,4578, contro l'1,4521 del 2018, che resta il miglior risultato di sempre, nonostante Quota 100.

Da questi dati, emerge sempre più necessaria la separazione tra assistenza e previdenza. La parte di spesa fuori controllo, infatti, è quella assistenziale a carico della fiscalità generale, passata dai 73 miliardi nel 2007 ai 114,27 del 2019, che continua ad aumentare senza controllo, mentre quella previdenziale è in equilibrio. Nel 2019, su 16 milioni di pensionati, quasi la metà erano a carico della fiscalità generale.

Il problema, conclude il Rapporto, sarà la sostenibilità del sistema nel lungo periodo, visto che il 43,9% dei contribuenti versa solo il 2,4% di Irpef e un altro 13,8% versa il 6,6%. In totale il 60% di italiani versa poco più del 9% di Irpef, pari a circa 16 miliardi, ma ne riceve in cambio per la sola sanità 50,3, altri 70 per l'assistenza e 54 per l'istruzione. Totale 174,3 miliardi a carico del restante 40% della popolazione, ma soprattutto del 13% (redditi da 35mila euro in su) che versano quasi il 60% di tutta l'Irpef. Perciò, senza la riforma fiscale annunciata da Draghi, sarà difficile in queste condizioni sostenere a lungo l'attuale livello di welfare.

BENIAMINO MORO
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