L e prossime elezioni europee, secondo Salvini, saranno “come un referendum tra la vita e la morte”. Che esagerazione!, direbbero in molti, ma ci ha pensato il suo nuovo antagonista di governo, Luigi Di Maio, a ridimensionare l'aspetto smaccatamente elettoralistico della dichiarazione, ricordandogli che i referendum non sempre premiano chi li propone, e aggiungendo perfido che “a Renzi non andò bene”.

Battute a parte, quali considerazioni si possono fare sulle convenienze economiche per l'Italia di stare ben ancorata all'Europa? Ne voglio qui accennare alcune, cominciando dagli interessi pagati sul debito pubblico.

Nel 1996, alla vigilia della decisione di aderire alla futura costituzione dell'Unione monetaria europea (UME) come Paese fondatore, l'Italia pagava sui Btp a 10 anni circa il 10% di interesse annuo. La convergenza richiesta sui tassi d'interesse dal Trattato di Maastricht per raggiungere l'obiettivo di essere tra i Paesi fondatori dell'UME spinse verso il basso il rendimento dei nostri titoli, fino ad allinearsi ai rendimenti tedeschi. Questi hanno oscillato intorno al 5% per un intero decennio (1998-2008) sino allo scoppio della crisi finanziaria dei debiti sovrani, avvenuta nel 2009.

Se calcolata su un debito pubblico di 1.000 miliardi, la riduzione degli interessi conseguente a una diminuzione di 5 punti percentuali del tasso corrisponde a 50 miliardi di minori costi all'anno, che su un arco di 10 anni assommano a 500 miliardi di debito pubblico in meno. (...)

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