C on l'estate, si sa, le isole tornano di moda. Tutti ne parlano, alcuni le frequentano, altri le sognano. Ma l'idillio dura poco. Al calar dell'estate, si torna a casa e le isole vanno in letargo. Nessuno se ne occupa, durante l'inverno, salvo i loro abitanti, spesso pochi e in diminuzione.

Vivere in un'isola comporta costi e disagi ma l'immaginario collettivo non rende giustizia. Molti credono infatti che tutte le isole siano sostanzialmente uguali, senza notare alcune, evidenti differenze. In Italia abbiamo ben 800 isole, tra marittime, fluviali e lacustri. Alcune di esse, ancor più penalizzate, sono sub-insulari, altre si trovano molto vicino a terra, altre ancora vi sono collegate. Anche la grandezza è dirimente, Spargi o Tavolara non sono certo la Gran Bretagna.

Il problema è che, mentre l'economia e la sociologia indagano queste diversità, la politica e il diritto raramente se ne occupano. Neppure a livello europeo esiste una definizione di isola. Per cui siamo costretti a rifarci alle statistiche. Eurostat definisce isola, ogni territorio che: 1) abbia superficie minima di 1 km quadrato; 2) disti almeno 1 km dalla terraferma; 3) abbia almeno 50 abitanti; 4) non abbia collegamento fisso con la terraferma; 5) non ospiti la capitale di uno Stato membro dell'UE. Altre definizioni arrivano da studi scientifici (Crenos 2014, Euroislands 2013 ecc.).

Il diritto europeo parla genericamente di isole (articolo 174 TFUE) mentre attribuisce un regime più favorevole a taluni territori ultraperiferici di Spagna, Portogallo e Francia (articolo 349 TFUE).

La norma è però draconiana, quasi che migliaia di altri territori, dentro e fuori i loro relativi Paesi, non siano anch'essi periferici. Bisognerebbe quindi colmare la lacuna, individuando i reali elementi di svantaggio territoriale. E partire proprio dalle isole sarde, delle quali evidenziare geografia, orografia, demografia, condizione infrastrutturale ed economico-sociale. Quantomeno per superare taluni paradossi; ad esempio che la collocazione della Sardegna, fuori o dentro l'obiettivo convergenza, dipenda dai fatturati della Saras. Detta documentazione (che la Regione ha già) va quindi posta sul binario giusto, affinché giunga a destinazione. Qui però siamo alle solite. In Sardegna, negli scorsi anni, si sono battute più strade al contempo: la modifica dell'articolo 349 TFUE, la concertazione politica, con Corsica e Baleari, la reintroduzione dell'insularità in Costituzione. Il primo dei citati percorsi ha pure condotto ad approvare una legge regionale (articolo 4, l.r.5/2017) ed una nazionale (articolo 1, c.837, l.205/2017), la quale, per ovviare alla “condizione di insularità della Sardegna che ne penalizza lo sviluppo economico e sociale”, aveva istituito un Comitato istruttore paritetico Stato-Regione. Scopo: fornire al Governo italiano tutte le motivazioni utili a proporre la modifica dei Trattati europei. La Regione ha però optato altrimenti, chiedendo di mitigare il divieto di aiuti di stato visto che, anche quando otteniamo i fondi, non ci è consentito spenderli. Oggi si ipotizzano ancora nuove vie e il precedente percorso è stato abbandonato (Comitato paritetico incluso). La domanda sorge dunque spontanea: Sardegna, quo vadis? La risposta, purtroppo, appare scontata. Come per la vicenda della zona franca, il problema è sempre il solito: la politica isolana brandisce il feticcio dell'autonomia e dell'insularità nelle stagioni calde (quelle elettorali) per far leva sulla frustrazione e la rabbia dei sardi. Chiuse le urne, è già settembre: l'estate è finita, si torna in letargo.
© Riproduzione riservata