Virus: i dati e i grafici, sempre più incoraggianti. Ma stiamo ripartendo alla cieca
I numeri e la crisi consigliano di ripartire, ma si può fare allo stesso modo in tutta Italia? E come siamo messi con test, tracciamento e trattamento? Siamo pronti?Continua inesorabile la ritirata del coronavirus dall'Italia. Nell'ultima settimana non si sono ancora visti gli effetti della fase 2. I casi totali sono aumentati 6.365 unità (+2,9%): la settimana scorsa di 8.353 (+4%), due settimane fa di 13mila (+6,6%). Si continua a scendere, e siamo lontani anni luce dai 38.500 contagi settimanali dell'ultima settimana di marzo. Solo l'1,44% dei tamponi è risultato positivo. Ieri in particolare, scendendo sotto i 700 casi, abbiamo fatto registrare il dato più basso dal 4 marzo, quando l'epidemia era agli inizi e doveva ancora scattare il lockdown in Italia.
Negli ultimi sette giorni si registrano altri 15mila attualmente positivi in meno. Appena un mese fa, il 19 aprile, in Italia c'erano 108mila malati: da allora è cominciata una discesa inesorabile, progressiva, che ci ha portato ai 68mila odierni. Ben 40mila in meno. Guadagniamo altri 265 posti in terapia intensiva: sono 762 quelli occupati, erano 4mila nel picco, poi un continuo calo che dura da cinque settimane consecutive. Bene anche i ricoveri, 3.307 in meno. E diminuisce il numero delle vittime: negli ultimi sette giorni sono 1.348. una settimana fa erano 1.646, due settimane fa 2.240. Nel periodo più nero erano 5.300.
In Sardegna l'epidemia sembra quasi azzerata. Solo 13 casi in sette giorni, con una crescita settimanale sotto l'1% (solo l'Umbria cresce meno dell'Isola, ma di pochissimo) e una percentuale di tamponi positivi allo 0,15%. Gli attualmente positivi calano di 110 unità, sono solo 405. Invariate le terapie intensive occupate, sono dieci. Solo cinque i nuovi decessi, peraltro tutti registrati in un giorno e riferibili a settimane precedenti. Aumentano anche i tamponi: 8.200 non saranno tantissimi, ma sono sempre più dei circa 6mila delle ultime tre settimane.
IL CASO LOMBARDIA - Il Piemonte che destava preoccupazioni ha decisamente piegato la curva. Resta la Lombardia: tutti i parametri sono in diminuzione anche lì, ma è una decrescita lenta, che si scontra con il gran numero di casi registrati e con un'epidemia che da quelle parti sembra avere una lunga coda. Preoccupante in vista delle imminenti riaperture.
I nuovi casi nella regione più colpita d'Italia sono 3.337: il 3,6% dei tamponi è risultato positivo. La settimana scorsa erano quasi 4mila con il 5,4% di tamponi positivi.Diminuiscono le vittime (533, la scorsa settimana 755), i ricoveri (-948) e le terapie intensive (-93). In calo anche gli attualmente positivi di 2.760 unità, ora sono 27mila. Aumentano i tamponi, 91mila questa settimana contro i 73mila delle ultime tre, ma molti non sono diagnostici, sono tamponi di controllo.
Eppure c'è ancora qualcosa che non va: la Lombardia ha una crescita percentuale settimanale dei casi tra le più alte (+4%), seconda solo alla Liguria, nonostante sia stata la prima ad essere colpita dall'epidemia. Più della metà dei contagi in Italia dell'ultima settimana si sono verificati in quella Regione (3.300 su 6.300). La discesa e lenta, i nuovi casi sono ancora troppi, 470 al giorno in media negli ultimi sette giorni. Segno che un problema lì ancora c'è c'è. ed è sbagliato ignorarlo.
TEST, TRACCIAMENTO E TRATTAMENTO - Oggi si riparte, dunque, i numeri dell'epidemia ci dicono che si può fare. Dopo un primo assaggio di normalità a partire dal 4 maggio, in tutta Italia - Lombardia compresa - stanno riaprendo anche bar, ristoranti, parrucchieri e – tra una settimana - palestre. Ma siamo pronti, o procediamo alla cieca nella speranza che il virus ci lasci un po’ di tregua in estate? Cosa che sostengono molti esperti e che solitamente accade per i coronavirus, ma è tutt’altro che certa per il Sars CoV2.
Le famose tre T di "testare, tracciare e trattare", ritenute fondamentali per la “convivenza” col virus da quasi tutti i virologi e gli epidemiologi, che fine hanno fatto?
Sulla prima "T" nelle scorse due settimane, coincise con l’avvio della fase 2, non abbiamo fatto grossi passi avanti. Un incremento c'è stato negli ultimi sette giorni, ma non basta. Abbiamo perso, a favore di Spagna, Portogallo e Belgio (tutti Paesi in cui l’epidemia è iniziata dopo rispetto al nostro), il primato nel numero di tamponi in rapporto alla popolazione. Segno che questi Stati in fase 2 hanno impresso un’accelerazione al numero di test, per individuare i casi positivi e isolarli. Noi troppo poco: anzi, se consideriamo che un terzo dei tamponi è di controllo e non diagnostico, i numeri scendono ulteriormente. E poi c’è il caso della Lombardia, che per essere la Regione più colpita d’Italia (gli attuali positivi sono quasi il triplo di quelli del Piemonte secondo e i decessi totali sono quasi la metà di quelli registrati in Italia) ne fa davvero troppo pochi, come si può vedere dal grafico. Sui test sierologici, altro metodo per arrivare a una diagnosi, faremo un discorso a parte.
Quanto alla seconda “T”, non esiste quell’esercito di tracciatori di cui ci sarebbe bisogno. E ancora non c’è la app, che sarà testata in alcune Regioni da fine maggio. Una app che avrebbe dovuto essere pronta e scaricata da 30-40 milioni di italiani già prima che iniziasse la fase 2. Siamo in netto ritardo insomma, ma su questo non siamo i soli se ci può consolare.
Il trattamento infine: non si riferisce solo alle cure, che sono compito della medicina e che stanno facendo passi avanti, anche se non ancora risolutivi. Si riferisce, nell’ambito delle decisioni politiche, al modo in cui vengono trattati i positivi. Il cui isolamento dovrebbe essere effettivo, in strutture alberghiere che pure sono a disposizione, e non all’interno delle case che condividono con i familiari, spesso infettandoli. Bastano i dati sui contagi di aprile, secondo cui nell’Italia in lockdown il 22% si infettava in famiglia, per capire l’importanza di misure di isolamento più drastiche. Eppure le Regioni non le attuano, e lo Stato non le costringe a farlo.
ALLA CIECA - Si procede step by step, ma due settimane non bastano. Ci accingiamo a riaprire quasi tutto senza aver visto gli effetti delle prime riaperture del 4 maggio. "Li vedremo la prossima settimana (questa, ndr)", ha detto qualche giorno fa il virologo Fabrizio Pregliasco, che pure è membro del Comitato tecnico scientifico che affianca il governo.
A conferma di ciò arriva anche un’analisi indipendente della Fondazione Gimbe. Da cui risulta che gli effetti del primo allentamento del 4 maggio potranno essere valutati solo tra il 18 maggio e la fine del mese.
E’ quanto risulta sommando le varie tempistiche per arrivare a riscontrare un caso di positività: il tempo medio tra il contagio e la comparsa dei sintomi è di 5 giorni, con un range da 2 a 14 giorni. Tempi a cui vanno aggiunti 9 o 10 giorni per la conferma della diagnosi, che dipende da: richiesta del test, esecuzione dello stesso, analisi di laboratorio e refertazione. Secondo i dati forniti dall’Iss il tempo mediano tra insorgenza dei sintomi e diagnosi è stato di dieci giorni nel periodo 21-30 aprile e di nove nel periodo 1-6 maggio.
"Se le riaperture si baseranno esclusivamente sul tasso di occupazione di posti letto in terapia intensiva e in area medica, tutte le Regioni sono pronte. Se entrano in gioco i casi notificati alla Protezione civile e il valore di Rt, gli effetti dell’allentamento dello scorso 4 maggio potranno essere misurati solo dalla prossima settimana", sostiene la Fondazione. E il suo presidente Nino Cartabellotta mette in guardia: "L’epidemia è ancora attiva, il contagioso entusiasmo per la fase 2 aumenta il rischio di una seconda ondata all’inizio dell’estate".
Le famose "pagelle" del ministero della Salute alle Regioni, pubblicate sabato sera, fotografano ancora l’Italia nel momento del lockdown.
Su quali dati, quindi, si basano queste ulteriori riaperture? La prudenza ha lasciato spazio alla fregola del far ripartire tutto, e ovunque. Cosa giustificabile, anche perché i numeri sono dalla nostra parte e il lockdown ha funzionato. Le attività devono ripartire, in diverse zone d’Italia (Sardegna compresa) avrebbero potuto farlo anche prima, ma in altre che non appaiono pronte almeno ristoranti, bar e parrucchieri avrebbero potuto attendere altri 15 giorni. In assenza di una strategia ben delineata e con dati ancora allarmanti.
E allora non ci resta che sperare: nel caldo e nella responsabilità degli italiani.