Il silenzio è spettrale solo un attimo dopo le 10 e 40, quando il boato ha già devastato il cielo e la terra di Nassirya. I corpi di chi si è salvato sono inginocchiati a terra, con le mani strette sulla testa. Gli occhi sono di fuoco, incapaci di guardare quella strage che ancora brucia nel deserto più dilaniato di sempre, quello iracheno. E’ il 12 novembre di diciotto anni fa. Nel quartier generale italiano, in teorica missione di pace in Iraq, l’inferno non ha mai bussato, ha sfondato direttamente l’ingresso con un’autocisterna stracarica di esplosivo, capace di far saltare per aria ogni speranza di vita. Gli sguardi, quando gli occhi ancora sbarrati si riaprono, si infrangono nel vuoto. I corpi, quelli sventrati senza un domani, sono riversi tra un groviglio di lamiere piegate come un fuscello tormentato da un uragano di dinamite. Lasciano la vita in terra straniera e lontana 12 Carabinieri, 5 soldati dell’Esercito, due civili italiani. Con loro raggiungono il cielo insanguinato anche nove cittadini iracheni.

Il maresciallo Silvio Olla

Non ritornerà a Sant’Antioco, suo paese natale, nemmeno Silvio Olla, 32 anni, sottufficiale sardo del 151esimo Reggimento della Brigata Sassari. La strage è compiuta. Scolpita nella storia come la più violenta. Ogni anno, in quel giorno, le lacrime della memoria si ricongiungono con le parole del ricordo. La verità su quell’attimo d’inferno che ha sconvolto l’Italia, e non solo, resta, però, ancor oggi, avvolta nel silenzio di Stato. Le cerimonie dispensano cordoglio, ma tacciono su giustizia e verità. Eppure, una verità, quella giudiziaria, è già scritta. Amara, crudele e nefasta. Quei 28 morti non sono solo le vittime di un attentato contro la base “Maestrale” nella terra del petrolio e dell’uranio. La sentenza è della Corte d’appello di Roma, il giudizio è civile, ma le conclusioni sono più dure di una condanna penale. E’ in quella sentenza, il cui stralcio riproduciamo nella foto centrale, che emerge uno dei fatti più inquietanti di quella strage. Il 5 novembre del 2003, ovvero appena sette giorni prima dell’attentato, nel cosiddetto “punto situazione”, era emerso, dai dispacci dei servizi segreti, che le basi italiane nella città di Nassirya erano a rischio attentati. Non un’allerta come tante in uno scenario di guerra, ma un preavviso di pericolo circostanziato e dettagliato. La sentenza di condanna al risarcimento delle vittime per il comandante della contingente italiano è esplicita: «Non può non essere ribadito, il vero e proprio preavviso di pericolo concreto contro le basi italiane in Nassirya, dato dal "punto di situazione" del 5 Novembre, noto al comandante, secondo cui un gruppo di terroristi di nazionalità siriana e Yemenita si sarebbe trasferito a Nassirya, risultato ex post tragicamente veritiero, vedi le dichiarazioni del terrorista S.M.A.H. circa la base italiana scelta, quale obbiettivo, dopo sopralluogo, per la sua palese vulnerabilità». Era stato il Sismi, l’organismo dei servizi segreti militari, a circostanziare il pericolo. La sentenza lo scrive apertamente condannando la sottovalutazione dell’allarme: «Si devono, allora, ricordare anche i messaggi del Sismi del 23 ottobre: un attacco ad un obbiettivo al massimo entro due settimane. E del 25 ottobre, con precisione fin nei colori del mezzo: un camion di fabbricazione russa con cabina più scura del resto. Qui si deve rilevare l'evidente sottovalutazione, in capo allo Stano, comandante pro tempore, di un allarme così puntuale e prossimo».

Servizi segreti

Dunque i servizi segreti avevano previsto tutto, informato i vertici militari che, però, secondo la sentenza di condanna del comandante in capo, non fecero niente per scongiurare l’attacco maledetto. Sono sempre i giudici della Corte d’Appello a scolpirlo nella decisione finale:«Tale allarme – scrivono - si colloca, temporalmente, una settimana prima del tragico evento: ben c'era possibilità, dunque, di predisporre utilmente qualche maggior contrasto anche temporaneo. In ordine all'aspetto della complessiva insufficienza delle difese passive, il dato è certo e clamoroso». La conferma era già richiamata nella sentenza di primo grado: «Era sotto gli occhi di tutti (sul punto la sentenza ingiustamente – scrivono i giudici d’Appello – svilisce le precise e corrette dichiarazioni del Colonnello Burgio, ma anche del Colonnello Perrella): la situazione sul campo era anche più grave di quanto già non apparisse sulla carta. Mancanza di un'area di rispetto, inesistenza di una serpentina, “hesco bastion” (barriere) troppo bassi e riempiti di ghiaia anziché di sabbia, così essendo chiaramente insufficienti e passibili di trasformarsi in proiettili (come per le munizioni della riservetta) anziché avere effetto protettivo». Aspetti gravissimi che emergono nel silenzio di Stato: non è sfuggito ai giudici, infatti, che alcune delle vittime non furono uccise dalla deflagrazione ma colpite da proiettili esplosi ma non sparati. In pratica la riservetta piena di munizioni era posizionata proprio alle spalle dei militari divenendo con l’impatto un vero e proprio fuoco “amico”.

Gli errori gravi

I giudici lo scrivono senza sotterfugi: «Anche quanto alla riservetta (deposito munizioni, ndr) la sentenza precedente appare inadeguata, disattendendo la questione con una generica affermazione di concreta irrilevanza, mancando con ciò di confrontarsi - per non dire errando sul punto - con gli esiti delle indagini medico - legali che rilevavano come alcune vittime fossero state colpite da proiettili esplosi ma non sparati, il che rimanda proprio alla riservetta esplosa per l'innesco causato dall'esplosione del camion-bomba. Sullo specifico punto, anche un estraneo alle arti militari dovrà rilevare l'irresponsabile assurdità della collocazione così esposta di un deposito di munizioni». A mettere sotto accusa i vertici militari italiani è proprio la Corte d’Appello: «il comportamento virtuoso - che si richiede a chi presiede una posizione di garanzia - sicuramente avrebbe, secondo regole di comune e condivisa esperienza, ridotto il rischio in sé o ridotto gli esiti di danno, perché il camion bomba, costretto a fermarsi prima, non avrebbe cagionato la strage poi in realtà causata». Silvio Olla, il giovane sardo travolto da quell’orda barbarica carica di esplosivo, non c’è più. Ieri le commemorazioni si sono sprecate, ovunque. Famiglie delle vittime e reduci di quell’attentato, però, attendono ancora giustizia, verità e risarcimenti. Lo Stato nega tutto e di più, nonostante siano trascorsi diciotto anni da quella strage, preannunciata con un “pizzino” dei servizi segreti, che nessuno ascoltò.

Mauro Pili

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