«Mi ha chiamato giovedì mattina, era molto presto, non l’aveva mai fatto a quell’ora. Era riuscita a dettare l’ultimo capitolo del suo libro sulla gestazione per altri, un lavoro al quale teneva particolarmente. Voleva che lo sapessi che ce l’aveva fatta. E mi sussurrò, ‘dottore, ora posso andare’. Qualche ora dopo se n’è andata».

A parlare in un’intervista al Corriere è Fabio Calabrò, direttore di oncologia medica all’Istituto nazionale dei tumori del Regina Elena di Roma, che ha seguito Michela Murgia nella sua malattia.

Con lei il medico aveva stretto un patto: «Lei sarebbe stata libera di rinunciare alla cura nel momento in cui le medicine le avrebbero impedito di essere quella che era sempre stata».

Nei suoi ultimi mesi di vita, Murgia ha cercato di scrivere quanto più possibile: «Mi sento di dire che ha affrontato il cancro come una opportunità, mai come una condanna. Nelle ultime settimane non riusciva più a muoversi, ma dettava pagine e pagine con una lucidità incredibile. Ed è stata libera anche quando ha accettato la radioterapia, il taglio dei capelli che ha condiviso il pubblico, aveva bisogno di conquistarsi, giorni, settimane».

E quella telefonata, poche ora prima di morire, «è stato il suo modo di affermare ancora una volta la sua libertà: ora ho finito, posso andare».

Il medico ha anche raccontato il loro primo incontro: «Mi aspettavo una donna scontrosa, polemica, forse anche incattivita da quello che le stava succedendo. Ma percepii in lei uno sguardo e un’accoglienza che non mi sarei mai aspettato, mi colpì la sua dolcezza».

(Unioneonline/L)

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