La mancanza di un piano pandemico, le difficoltà nel reperire mascherine e dispositivi di protezione già note otto giorni prima del “paziente 0”, un allarme sulla progressione del contagio e le catastrofiche conseguenze sottovalutato o ignorato per via dei «politici, economici e sociali» della zona rossa.

Tutto scritto nero su bianco nella consulenza del professor Andrea Crisanti di cui si è avvalsa la Procura di Bergamo, che ha chiuso l’inchiesta sulla prima ondata di Covid che ha messo in ginocchio la Val Seriana.

Nel registro degli indagati ci sono 19 persone, tra queste l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, il suo ex assessore al Welfare Giulio Gallera, il presidente dell'Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, il coordinatore del primo Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo, l'allora capo della Protezione Civile Angelo Borrelli e il presidente del Consiglio superiore di Sanità, Franco Locatelli.

CONTE, SPERANZA, FONTANA E CTS SAPEVANO

Nei giorni 27 e 28 febbraio 2020, si legge nella relazione, «il Cts e il ministro Speranza hanno tutte le informazioni sulla progressione del contagio che dimostravano come lo scenario sul campo fosse di gran lunga peggiore di quello ritenuto catastrofico». E le informazioni sulla gravità della situazione ad Alzano e Nembro furono oggetto di una riunione del Cts del 2 marzo «non verbalizzata ufficialmente alla presenza del ministro Speranza e del presidente Conte». Speranza e Conte raccontano invece alla Procura di Bergamo «di essere venuti a conoscenza del caso di Alzano e Nembro rispettivamente» il 4 e il 5 marzo.

Anzi, prosegue il microbiologo, proprio «sulla base delle previsioni dello scenario con Rt pari a 2 il Cts e Speranza condivisero di secretare il Piano Covid, elaborato dall'epidemiologo Stefano Merler, per non allarmare l'opinione pubblica».

La zona rossa in Val Seriana al 27 febbraio 2020 («data in cui Cts e Regione Lombardia erano consapevoli della gravità della situazione») e al 3 marzo 2020 «avrebbe permesso di evitare, con una probabilità del 95%, rispettivamente 4.148 e 2.659 decessi».

COVID AD ALZANO GIÀ IL 4 FEBBRAIO

All'ospedale di Alzano Lombardo il Covid circolava già dal 4 febbraio 2020, più di due settimane prima della data del caso di Paziente 1, con tre pazienti infetti ricoverati nel reparto di medicina al terzo piano e uno nel reparto al secondo piano «con un quadro clinico compatibile con infezione da Sars-Cov2 poi confermata con tampone molecolare».

POCHI TEST

Il 24 febbraio 2020, si legge nella relazione, «il Cts evidenziava che in assenza di sintomi il test era ingiustificato, parlando del rischio di una sovrastima del fenomeno sul Paese».

Una indicazione che, scrive Crisanti, «avrà gravi conseguenze invece per comprendere cosa stava realmente accadendo, perché il conteggio dei casi asintomatici avrebbe dato informazioni cruciali sull'entità della diffusione del Covid».

PAESE VULNERABILE

Altro capitolo, un Paese vulnerabile e che già il 12 febbraio, otto giorni prima di Paziente 1, sapeva di esserlo: task force del ministero e Cts erano «consapevoli della difficoltà di reperire Dpi e materiali per la loro produzione» e quindi conoscevano «la situazione di vulnerabilità in cui si trovava l'Italia e del rischio a cui avrebbero esposto la popolazione e gli operatori sanitari non prendendo iniziative idonee».

Per sopperire alla carenza di mascherine chirurgiche e di Ffp2, nei giorni successivi al 23 febbraio 2020, agli operatori sanitari dell'ospedale di Alzano Lombardo è stato suggerito e data l'autorizzazione «a utilizzare le mascherine dei kit anti-incendio presenti nei reparti».

Inoltre, dalle chat risulta che il personale «è stato istruito a riutilizzare» le Ffp2, «procedura contraria a ogni principio di sicurezza e prevenzione».

«Per 16 anni», dal 2004 al 2020, «non è mai stata intrapresa una singola attività o progetto che avesse l'obiettivo di valutare lo stato di attuazione del Piano Pandemico Nazionale e/o di verificare lo stato di preparazione dell'Italia nei confronti del rischio pandemico», incalza ancora Crisanti.

IL PIANO SEGRETATO E I COSTI DELLA ZONA ROSSA

Speranza, Brusaferro, Miozzo, il dottor D’Amario «erano a conoscenza del piano Covid, degli scenari di previsione e della gravità della situazione», ma «presero la decisione di segretare il piano per non allarmare l’opinione pubblica». E di tutto questo erano a conoscenza anche «i vertici di Regione Lombardia».

«La ragione per la quale azioni più tempestive e più restrittive non sono state prese – scrive ancora Crisanti - la fornisce il presidente Conte quando nella riunione del 2 marzo 2020 afferma che 'la zona rossa va utilizzata con parsimonia perché ha un costo sociale, politico ed economico molto elevato'. Queste considerazioni hanno prevalso sulla esigenza di proteggere gli operatori del sistema sanitario nazionale e i cittadini dalla diffusione del contagio».

Speranza inoltre, nei primi giorni di marzo 2020, inviava un messaggio a Brusaferro: «Conte senza una relazione strutturata non chiude i due comuni. Pensa che se non c'è una differenza con altri comuni ha un costo enorme senza beneficio».

PIANO PANDEMICO

Un piano pandemico, anche se vecchio e da adattare, c’era, ma «è stato scartato a priori senza essere valutato dai principali organi tecnici del ministero». L’Italia così «ha affrontato la pandemia senza un manuale di istruzioni».

Nel sostenere ciò, Crisanti si riporta alle dichiarazioni spontanee rese da Claudio D’Amario, ex direttore generale della Prevenziona sanitaria del ministero e ora indagato. Parole che «gettano luce sul processo decisionale che ha portato a ignorare il Piano pandemico nazionale».

Secondo la relazione «era l'unico documento operativo a disposizione che, sebbene non perfettamente allineato con le più recenti indicazioni di Oms conteneva ben dettagliate una serie di azioni per contrastare la diffusione» del virus.

Fu Silvio Brusaferro, ricostruisce Crisanti, a proporre una «soluzione alternativa» al piano pandemico. E il microbiologo ipotizza che tale scelta sia stata fatta dopo «un'attenta valutazione tecnico scientifica». Ma lo stesso Brusaferro, quando venne sentito come teste dai pm bergamaschi, ha riferito di aver letto per la prima volta il piano pandemico del 2006 nel maggio 2020.

(Unioneonline/L)

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