"Se non avessimo giocato la partita a quei livelli Mattia non ce l'avrebbe fatta". A raccontare delle prime 24/48 ore convulse all'ospedale di Codogno, dove la sera di tre mesi fa è stato scoperto il primo paziente colpito da coronavirus in Italia, è Enrico Storti, il responsabile dell'unità di anestesia e rianimazione dell'Asst di Lodi a cui fa capo il presidio ospedaliero del comune poi diventato zona rossa.

La mattina del 20 febbraio, grazie a un lavoro di equipe, la rianimatrice Annalisa Malara, dopo aver saputo che Mattia, in condizioni disperate, era stato a cena con un amico rientrato dalla Cina, ha chiesto di sottoporlo a tampone.

"Così è stata messa in atto la prima manovra di contenimento dell'epidemia", spiega il primario.

Poi è stato impartito l'ordine a tutti i medici e gli infermieri di indossare i dispositivi di protezione in attesa del risultato.

"Ricordo che quella sera - prosegue Storti -, mentre stavo andando a Codogno per visitarlo e per valutare, assieme ai miei, le condizioni cliniche e il trattamento ventilatorio, mi è arrivata la telefonata del direttore generale Massimo Lombardo che mi diceva. 'E' positivo, vieni qui'".

Quindi il ritorno immediato a Lodi, dove intanto era stata costituita l'unità di crisi, mentre a Codogno si ricostruivano i contatti.

E mentre Piergiorgio Villani, uno dei rianimatori di punta dell'Asst, "come si dice in gergo è saltato addosso a Mattia e non l'ha più mollato: ha portato avanti il lavoro cominciato con il tampone, ha applicato i protocolli corretti in modo tempestivo, ha fatto la pronazione e la supinazione, e ha attuato un costante monitoraggio dei parametri cardiaci e polmonari".

"Sono state ore convulse - ricorda Storti -, con tante cose da fare. Lì ha giocato una squadra, ciascuno ha fatto la sua parte, ma se non avessimo giocato la partita a quei livelli Mattia non ce l'avrebbe fatta".

(Unioneonline/L)
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