Giacomo “Genny” Urtis: «Non esageriamo: il pomo d’Adamo non lo tocco»
Nella metamorfosi l’identità si modella, il brand resta. Fede era buono e l’immortalità di Putin è una cavolata. Peccati d’ira e di gola, la lussuria «non vuole pensieri, e ne ho tanti»Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Due anni fa, quando andò a farsi torchiare da Francesca Fagnani nello studio di “Belve”, sorrise fra i boccoli spiegando di vedersi come un essere mitologico, metà uomo e metà donna. Un mese fa le percentuali sembravano già meno bilanciate: quando un incidente in Gallura ha impresso la spinta a sensibilizzare sui pericoli della strada, quella spuntata a raccomandare prudenza sul suo profilo Instagram era una stangona bionda e formosa. Ma il genere è soltanto un capitolo della saga di metamorfosi che vede l’algherese Genny già Giacomo Urtis - e vedremo come la transizione onomastica sia per certi versi la più laboriosa – al centro di un caleidoscopio che inquadra ora la persona informata sui fatti di Arcore e ora il perno di un glamour dagospiesco; il medico estetico trendy e l’homo faber della propria natura, in larghissima misura corretta e ripensata; l’intelligenza commerciale e il legame viscerale con la famiglia d’origine; i reality e l’ambulatorio; l’orgoglio da pioniera dell’autopromozione e l’inafferrabilità di un Narciso che farebbe ribollire di esasperazione l’acqua, a forza di farle specchiare un’immagine sempre diversa.
Il braccio come va?
«Bene, sono rimaste un po’ di cicatrici ma è roba risolvibile».
Detto da lei...
«Ora non pensiamo che le cicatrici le levi così, però considerato che ho fatto un frontale con due auto, possiamo dire che non mi sono fatta nulla».
Come Genny evita le freddure su Jacopo Ortis e le ultime lettere...
«Già, ora il problema è un altro. Il cliente arriva perché conosce quel nome, che negli anni è diventato un marchio, se legge Genny Urtis dice: e questa chi è? Infatti sui social non lo cambio».
Un rebranding si può fare.
«Sì, ma ho paura».
Si è cambiata tutto e ha paura di cambiare nome?
«Caro, è una questione di money. Con quel nome campiamo, manteniamo case, personale… Va bene che voglio diventare trans, ma casini col lavoro non ne posso fare».
Perché Genny?
«Mi piacciono i nomi corti. Nella mia famiglia si usano molto, mio nonno non amava i diminutivi e dava nomi che non si possono abbreviare. E poi Genny comincia con la G: avendo le iniziali dappertutto, tra valige, campanelli e la qualunque, non devo rifare nulla. Cioè, i documenti li dovrei cambiare: nella fotografia ho i capelli a zero e la barba».
Prima ha detto: “Va bene che voglio diventare trans”.
«Vivo come una donna, non ho la barba, ho i capelli lunghi, ho il seno. Questo si dice trans».
Non fosse un personaggio iperpubblico non avrebbe senso chiederlo: è una transizione che si completerà?
«Anche quando ero uomo sono stato moro, riccio, biondo col ciuffo… In tutte le fasi della mia vita sono stata bene. Magari dicevo: “Il seno mai! Ma ti pare che mi faccio il seno?”, e poi da una settimana all’altra ho deciso. Dipende da come mi gira. Ma non voglio diventare una superfemmina: non lo sarò e non lo posso essere. E invece vedo gente che esagera».
In che senso?
«Cambiano la voce, levano il pomo d’Adamo… Ma perché? Tanto di donne è pieno, chi viene con te lo fa perché gli piace quello che sei».
Il pomo d’Adamo è troppo.
«Ma sono tanti gli interventi che mi lasciano così… Poi noi in clinica li facciamo e sugli altri mi piacciono pure, ma se li penso su di me li trovo esagerati. D’altronde chi viene con me cerca anche quella parte mascolina, no? Quindi è inutile che mi ammazzi di interventi».
Beh, qualcosina l’ha fatta.
«Il seno mi piaceva, l’ho fatto e va bene così: mi piaccio».
Più tosta rispondere a Fagnani in tv o a Boccassini in Procura?
«Impegnative tutte e due, diciamo. Fagnani mi ha tenuto due orette con una media di una domanda ogni tre minuti, alla fine sudavo. Poi fanno il montaggio, ma è venuta una delle sue interviste più lunghe».
E Boccassini?
«Lì era durato un bel tre-quattro ore, voleva sapere tutto. Anche se poi… Potevano chiamarti già solo perché avevi cenato là, perché eri amico di una o le avevi fatto due trattamenti».
L’idea era capire se rientravano nel pacchetto bunga-bunga.
«Ma erano tutte amiche mie, e io alle amiche i trattamenti li faccio. Tra l’altro al tempo a Milano medici estetici non eravamo tanti. Ora vedi medici che fanno i video e vanno sui social, ma il primo in Italia sono stato io».
Come è andata?
«C’era un mio amico che faceva il pr in discoteca: Marcelo Burlon, lo stilista, che poi fra l’altro è diventato anche lui famosissimo e ricchissimo. Invitava la gente tramite Facebook e vedevo che arrivavano a migliaia. E mi sono detta: scusa, ma io faccio la stessa cosa con la medicina. Ho cominciato a fare dei video in cui parlavo dei trattamenti piuttosto che di altre cose e sono diventati virali. Sono stata molto attaccata dal sistema medico, la vedevano come un’idea frivola. C’erano professori che mi dicevano: ma insomma, lei vuol fare l’estetista!».
Le hanno detto di peggio: c’è chi alla Zanzara le ha dato del debosciato.
«Sì, Anna da Roma… Ma la Zanzara è così, devi fare un po’ di show».
C’è un’Italia che la vede come il simbolo del peccato.
«Altroché».
Testiamo: superbia.
«La vedo in quelli che più sono nessuno e più sono ignoranti e più sono superbi. Quindi no, sono una persona molto semplice. Anzi, certe volte un po’ di superbia mi sarebbe servita, perché in un mondo di persone cattive aiuta a tenere le distanze».
Invidia?
«L’ho avuta, però quella sana. Per dire, all’Università invidiavo il compagno che aveva dato più esami e questo mi spronava».
Ira?
«Oh, quella sì! Ma perché, è un peccato?».
Pare proprio.
«Ce l’ho tutto il giorno, mi incavolo con i dipendenti… però non so se si può chiamare ira».
Andrebbe chiesto ai dipendenti.
«Ma mi arrabbio a parole e basta».
E meno male. Accidia?
«Oddio, l’accidia qual era?».
Sta fra la pigrizia e la depressione.
«No, proprio no. Anzi, a volte esagero: adesso oltre agli ambulatori mi sono messa a fare immobiliare. Quando finiamo devo andare in cantiere».
Avarizia?
«Consideriamo che mio padre lo chiamo velociraptor, per quanto ha le braccine corte: fino a un paio di anni fa mi dava ancora la paghetta. Perciò sono stata abituata a vivere molto ma molto parsimoniosamente».
Gola?
«Sì, gola sì. Ma è proprio di famiglia, mia madre sui social finge di fare la dieta e poi ordina dolci e dolcetti».
Lussuria.
«Mah, vado a periodi. La lussuria non vuole pensieri, e ora ne ho tanti».
Controprova teologale. Fede?
«Tantissima. Andavo a Medjuogorje quando c’era la Jugoslavia, qualunque santuario in Italia l’ho visitato, andavo alle messe carismatiche, facevo il chierichetto… adesso purtroppo ho meno tempo».
A proposito di Fede: ora possiamo dire che lo punturava?
«È stato uno dei miei primi pazienti di Milano e mi ha anche fatto fare tanta tv. Mi dispiace tantissimo che non ci sia più. Soffriva anche lui di ira però era davvero buono».
Procediamo: speranza?
«Non deve mai mancare, però vedo tante persone che hanno solo quella e non si rimboccano le maniche».
Carità?
«I risarcimenti di alcune persone che mi avevano insultato li ho dati in beneficenza».
A chi?
«Organizzazioni che si battono contro le vessazioni a persone Lgbtq+».
Putin ha un’idea radicale di ringiovanimento: se ti trapianti gli organi uno per uno diventi immortale.
«Che cavolata, e il rigetto? Con la reazione del sistema immunitario moltiplicata per dieci organi, muori di infezioni o passi la vita sottovuoto, imbottito di immunosoppressori».
Celestino Tabasso