Il drone vola su Furtei: apocalisse di veleni
Dopo la devastazione degli australiani sono rimasti i laghi di cianuro e arsenico, nessuna bonifica concreta
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Vietato avvicinarsi. Le strade comunali sono polverose come tratturi di campagna ceduti all’inferno di Monte Miali. Entrare qui, nell’enclave dorata di Furtei, è come varcare il cancello per la dannazione. I cartelli ci sono, ma i varchi d’accesso sono liberi, come se la fuga da un’apocalisse si fosse già compiuta. Le ruote per accedere devono essere rigorosamente motrici. I divieti sono solo accennati. Il deserto è totale. Lo sguardo dell’orizzonte incrocia ovunque montagne mozzate, rase al suolo, divelte a colpi di esplosivo e mezzi meccanici. Come distruggere un territorio senza pensare a un domani. Gli attila australiani quando arrivano in Sardegna, è il 1995, hanno fretta. La rapina al territorio sardo, con tanti complici e molti silenzi, deve essere compiuta senza perdere tempo, come se la fuga non attendesse i ritardatari. Per loro metodi sbrigativi.
Cianuro a gogò
L’estrazione dell’oro prevede cianuro. Uso minimo, indica il processo chimico-fisico, già di per se invasivo. Se ne fregano i signori dei canguri. Usano percentuali di cianuro superiori ad ogni norma terrena. Devono estrarre tutto e in fretta. E loro sanno il motivo: scappare il prima possibile. Dopo aver sventrato le montagne con ferite visibili dal satellite hanno ridotto in poltiglia fangosa ogni materiale strappato a Monte Miali. Cime di Marmilla e Campidano polverizzate a colpi di tramoggia. Ogni cento tonnellate per ricavare un’oncia di oro, appena 31,1 grammi. Per intenderci nemmeno due fedi matrimoniali. Su quelle polveri, però, sono finiti fiumi di cianuro. Fiumi in piena, capaci di uccidere ogni remota forma di vita in tutta l’area. Estrarre oro colloidale, c’è ma non si vede, significava fregarsene del domani, come se non ce ne fosse alcuno. E del resto gli australiani, e poi i canadesi e gli americani, quelli della Sardinia Gold Mining, pensavano solo a fare soldi e lingotti.
Lingotto al cielo
Sono trascorsi 24 anni da quelle braccia alzate con un lingotto deforme rivolto al cielo in segno di vittoria. La Regione di allora, era il 1997, il “patto dell’inferno” lo aveva sottoscritto attraverso la società Progemisa direttamente con gli australiani. Peccato non avessero messo in conto il disastro ambientale che da teorico, ben presto, si trasformò in drammatica realtà. L'immagine da terra è devastante, dal cielo si preannuncia apocalittica.
Gabbiano d’acciaio
Quando il gabbiano d’acciaio spicca il volo, nessuno immagina lo spettrale scenario che quel decollo radente potrà restituire. Quando il drone irrompe nel proscenio della miniera d’oro di Furtei, tra la Marmilla e il Campidano, il paesaggio si scopre lentamente. L’orizzonte che si scorge a bassa quota percepisce appena il disastro immane che si è consumato in vetta. La vastità di quei dipinti di veleni si staglia senza remore su distese infinite di violenza ambientale. Una marea di sostanze tossiche senza ritorno corrode la terra, la brucia inesorabilmente sino ad avvelenarla in profondità, a contatto con falde idriche e terre vicine.
Day after
Le immagini sono da day after. Il percorso striato di cianuro e arsenico è seguito passo dopo passo dal volo del drone. Si percepiscono tubi idraulici collegati con un improbabile pozzo di controllo. In realtà, qui, tutto appare campato per aria. Lo si percepisce dall’alto, guardando il proscenio di questa miniera trasformata in un inferno senza fine. Il giallo della terra arsa non lascia adito a dubbi. Queste dighe di veleni sono una vera e propria apocalisse ambientale senza precedenti. Impensabile ritenere questi bacini al sicuro. Tracimazioni e infiltrazioni sono ben oltre le previsioni.
Svetta la diga degli orrori
Per comprenderlo bastano le immagini del drone trasmesse da “Top Secret”, la trasmissione d’inchiesta di Videolina in onda oggi, in replica, alle 15.00, canale 10 sul digitale terrestre e 819 su Sky. Non è solo la terra arsa dai veleni a incutere timore. Ad incedere nel percorso degli orrori è l’insidia della quota delle dighe di fanghi avvelenati. Lo si percepisce solo con l’orizzonte rivolto verso il Campidano. L’immagine fotografica del drone inchioda ciò che si staglia a valle.
L’allarme
La mannaia del cianuro e dell’arsenico incombe senza tregua sulla valle del Campidano. L’allarme dei livelli dell’invaso dei veleni segna rosso ad ogni pioggia. L’ultimo grido d’aiuto a febbraio scorso è scandito con tanto di ordinanza del Sindaco di Furtei: si dispongono lavori urgenti di messa in sicurezza del bacino Is Concas, proprio l’invaso dei residui tossici della miniera, cianuro prima di tutto. Era stata la stessa Igea, il braccio minerario della Regione, che ha ereditato la miniera d’oro, a segnalare, a causa delle continue e intense piogge, un livello crescente del livello delle acque all’interno del bacino a due passi da Santu Miali.
Otto centimetri di terrore
Il margine di sicurezza era arrivato a meno di otto centimetri dal bordo dell’invaso. Se fosse continuato a piovere il disastro si sarebbe consumato sino in fondo. Il pericolo scampato non ha insegnato niente. Qualche settimana dopo, siamo ai primi di marzo, era stata la stessa società di gestione a comunicare una fuoriuscita di acque acide dal bacino di Is Concas. Questa volta non si trattava di tracimazione ma di infiltrazione lungo l’argine. Non un caso, insomma, ma un rischio costante in un’area disseminata di veleni ad una quota superiore rispetto anche a bacini idrici artificiali, oltre che a corsi d’acqua naturali. Tutto questo a distanza di quasi 20 anni dalla fuga degli australiani e il subentro di americani e canadesi.
Bomba a orologeria
Una bomba di veleni a orologeria, perennemente innescata, dove il tempo perso non si conta più. Il timer e la meteorologia non conoscono intoppi burocratici. Al rischio di tracimazione si aggiunge quello ben più rilevante, proprio per la costanza del pericolo, relativo a ulteriori potenziali infiltrazioni nel suolo e sottosuolo, dalle falde idriche ai percolati sotterranei. Nonostante questo, nell’ultimo anno finanziario, il 2020, sono stati spesi per quell’area un milione e 208 mila euro di bonifiche mentre oltre un milione e mezzo è costata la sola gestione. Dei 65 milioni stanziati dalla Regione per risanare il bacino devastato impunemente dagli australiani non si ha traccia, interventi marginali e tampone senza opere che eliminino alla radice quel disastro.
Sotto il tappeto
La logica, anche a Furtei, è quella di coprire tutto. Una messa in sicurezza destinata a riporre sotto il tappeto il grande disastro ambientale. Del resto si sta parlando di ben 530 ettari di terreni inquinati, in teoria da bonificare integralmente. In realtà, invece, anche nei piani regionali approvati, non si parla quasi mai di bonifica. Nella prima fase, tre anni, era previsto solo di isolare le sorgenti di contaminazione, con la messa in sicurezza dell’area e del bacino artificiale, quello stracarico di veleni.
Volo veritas
Nel proscenio di Furtei il drone non commenta, registra. Immagini spettrali che non ammettono giustificazioni. Il paesaggio visto dal cielo è un dipinto, ma non è l’arcobaleno. Si possono innalzare difese d’ufficio e scuse burocratiche ma i fotogrammi impressionati su quella montagna sono un’apocalisse ambientale senza precedenti. Immaginare quei veleni a portata di corso d’acqua o di falda idrica è roba da far tremare le vene dei polsi. L’ennesimo tramonto avanza nelle colline dei veleni. Gli australiani da Furtei sono scappati, ma qualcuno di loro in Sardegna è tornato. Ma questa è un’altra storia.
Mauro Pili