Il numero 11 è entrato nella sua vita a gamba tesa. Come era stato per Gigi Riva. Il numero 11 della maglia che gli aveva regalato il padre dopo aver visto per la prima volta giocare il suo idolo-bomber. E, caso vuole, che proprio a undici anni entrò in seminario. 

Don Carlo Rotondo, sacerdote di Sinnai, oggi 60 anni, missionario in Tanzania, cappellano del Cagliari su nomina di Tomaso Giulini nel 2016, è stato sempre un super tifoso rossoblù. E anche in Africa segue la squadra con attenzione e cerca di trasmettere la passione per il Cagliari ai ragazzini che aiuta. 

I RICORDI – La prima volta che andò allo stadio – l’Amsicora – fu il 12 aprile del 1970, il giorno della scudetto rossoblu. Il padre, all’uscita, gli fece anche un altro regalo: «Mi comprò la maglietta del Cagliari e per molte notti quella maglietta divenne il mio pigiama. Poi andai oltre con le richieste: chiesi a mio babbo di comprarmi anche due numeri 1 in pelle. Mia mamma li cucì sulla maglia rossoblu: da quel momento ebbi un’idea stravagante, maniacale: diventare GiggiRrriva».

Un racconto, il suo, inviato al foglietto della sua parrocchia di Santa Barbara a Sinnai, a oltre un mese dalla scomparsa del campione, suo idolo.

Si firma come Don Carlo Rotondo, “missionario rossoblu”.  Dalla Tanzania segue con attenzione le vicende del Cagliari calcio. «Più che calciatore – racconta Don Carlo, firmandosi “missionario rossoblù” – volevo diventare Gigi Riva. Il calcio era il mio sport preferito. Quando mi chiedevano  dove volessi giocare, la risposta era immediata: “ala sinistra”. Mi abituai a calciare solo col sinistro usando il destro come piede d’appoggio. Proprio come Riva. Ricordo il mio pianto quando Riva si infortunò. Allora, ero un chierichetto e pregai tanto per lui perché guarisse più in fretta. Insomma Gigi Riva era davvero il mio sogno».

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LA MISSIONE –  Una vita straordinaria anche quella di don Carlo. Per una decina d’anni è stato missionario in Kenia dove fondò il Nanyuki calcio, club che disputò il campionato keniota. Tornato in Sardegna, è ripartito oltre due anni, questa volta in Tanzania dove la miseria si taglia a fette e dove don Carlo tanto per non smetirsi, si occupa di ragazzini disperati che hanno riscoperto la gioia della vita. Anche semplicemente vestendo la maglia del Cagliari, arrivata così lontana.  

La vocazione è arrivata da piccolo, dopo una messa servita come chierichetto: «Chiesi al parroco cosa bisognava fare per diventare sacerdote? E lui: “Devi andare a studiare in un luogo chiamato seminario dove si gioca anche a pallone. Così è stato”. Ora ho 60 anni, di cui 34 trascorsi a fare il sacerdote. Ora sono strafelice di fare il missionario. Da bambino sognavo di essere Gigi Riva, il buon Dio mi ha dato la gioia e l’onore di essere un prete alla Gigi Riva».

UN PRETE “ALLA RIVA” – «Si, è proprio così, – prosegue don Carlo – la mia vita sacerdotale è fatta di giocate incredibili, gol pazzeschi, rovesciate leggendarie, stamborrate imparabili. E, come Riva, ho anche avuto infortuni gravi, proprio al ginocchio sinistro. E come Riva non mi sono lamentato ma ho sempre cercato di rialzarmi. E, come Riva, ho detto un unico “Si”: lui al Cagliari e alla Sardegna. Io a quel giocherellone di Dio».

Poi un’ultima riflessione:«Il culmine della mia gioia lo ebbi quando nel 2016 Tomaso Giulini mi ha chiesto di diventare il cappellano rossoblu. Oggi, l’uomo Riva è morto, ma il suo esempio, il suo stile, la sua leggenda vivono ancora nei bambini che lo hanno sognato e che lo sognano ancora: Grazie Gigi».

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