Ben prima di Empoli arrivò Quartu. Se nella città toscana lo scandalo delle infermiere filmate di nascosto mentre si facevano la doccia nello spogliatoio femminile dell’ospedale cittadino San Giuseppe è esploso lo scorso 27 maggio (sarebbero cento le vittime riprese a loro insaputa da una telecamera), nella terza città della Sardegna già da tre anni si indagava su un episodio simile, seppure più ridotto nei numeri (cinque le donne immortalate senza saperlo) e avvenuto in un contesto diverso, che viene alla luce ora con l’atto di chiusura dell’inchiesta notificato al presunto guardone: il titolare di uno studio professionale cittadino nel quale lavoravano diversi collaboratori e diverse collaboratrici cinque delle quali, scoperto quel che accadeva in bagno, si sono immediatamente licenziate e hanno presentato una denuncia. Ora l’uomo rischia di finire a processo per “accesso abusivo a un sistema informatico”, il reato contestato dal pubblico ministero Rossana Allieri.

La scoperta

Lui, neanche 50 anni (non ne pubblichiamo le generalità per tutelare l’identità delle vittime), messo alle strette dalle dipendenti avrebbe cercato di minimizzare senza ottenere alcun risultato. Le donne, inferocite, si sono rivolte alle avvocate Annamaria Busia e Roberta Cannas e hanno inoltrato a strettissimo giro di posta la segnalazione alle forze dell’ordine spiegando con precisione quanto accaduto. Quasi la copia di quanto illustrato agli inquirenti da infermiere, operatrici socio sanitarie, tecniche di laboratorio e dottoresse riprese a Empoli: una telecamera di dimensioni ridotte le osservava mentre si trovavano nella doccia e inviava le immagini a un monitor oltre la parete. A Quartu era stato messo in piedi un sistema nella sostanza identico: una telecamera riprendeva le donne in bagno e spediva i video a un telefonino chiuso nel cassetto della scrivania nell’ufficio del proprietario.

La sorpresa

Lo aveva scoperto una delle dipendenti accorgendosi della presenza, in una parete, di qualcosa che sporgeva; avvicinatasi per guardare meglio, si era accorta che si trattava all’apparenza di un occhio elettronico. Ne aveva parlato con le colleghe e, quando il titolare era andato fuori sede, con loro si era data da fare per capire cosa stesse accadendo. Così erano venuti fuori i fili e i collegamento col cellulare, nella cui memoria erano custodite immagini di ragazze che utilizzavano i servizi. Inoltre c’era una chat che il datore di lavoro usava per scambiare foto dal chiaro tenore osé, ed era venuto il sospetto (la paura) che anche le loro immagini potessero essere state inviate ad altre persone.

la perizia

Ricevuta la denuncia, la pm aveva disposto una perizia per accertare il contenuto nella memoria del telefono e l’uso che ne era stato fatto: dalle analisi è emersa la presenza di quattro o cinque immagini di donne mezzo svestite, ma non riconoscibili, e l’impossibilità di dimostrare che le immagini siano state inviate ad altre persone. Dopodiché l’inchiesta è stata chiusa. L’indagato, che ora attende la richiesta di rinvio a giudizio, si è rivolto perla difesa all’avvocato Alessandro Corrias.

Andrea Manunza

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