Il poligono di Teulada è, o è stato, “una zona fortemente contaminata e a forte rischio sanitario, come testimoniato dal verificarsi di numerosi casi – ben oltre la media statistica in relazione all’età – di patologie tumorali”.

Non hanno dubbi i giudici del Tar della Sardegna, chiamati a esprimersi sul caso (l’ennesimo) di un caporalmaggiore sardo dell’Esercito che a 28 anni si è ammalato di leucemia dopo aver prestato servizio “per anni, senza alcun tipo di protezione” nell’area militare del sud ovest dell’Isola.

Ha fatto causa, per ricevere almeno un indennizzo. Ma i medici del ministero della Difesa avevano negato il nesso tra la malattia, una “leucemia mieloide acuta e sarcoma mieloide” localizzata a livello D6”, e le attività svolte nel poligono. E hanno attribuito genericamente la patologia “al progredire dell’età e a una possibile predisposizione genetica”.

Il militare aveva vinto un primo ricorso e il Tar aveva ordinato alla commissione medica di effettuare ulteriori approfondimenti. Il verdetto? Arrivato nel 2021, uguale al precedente e a tanti altri emessi in casi simili: il poligono, è la tesi dei medici con le stellette, non c’entra niente. I soldati si ammalano perché si ammalano, in sintesi. Solo che nei documenti e nei referti non si va a fondo sul perché il nesso debba essere escluso. E per i giudici amministrativi non è il soldato vittima a doverne dimostrare l’esistenza, ma è la Difesa a dover fornire le prove della “innocenza” del poligono e delle attività che ci sono state condotte dentro negli anni.

Così ecco la nuova sentenza: la commissione medica si deve riunire, nuovamente, per decidere sul caso, ma deve rispettare i dettami contenuti nel dispositivo, appena depositato sulla base del nuovo ricorso presentato dagli avvocati Caterina Usala e Antonio Carta per conto del militare malato.

Secondo i giudici “c’è stata da parte del comitato di verifica una insufficiente considerazione della giovane età del ricorrente, nato nel 1984, assunto in perfette condizioni di salute nel 2007, ammesso a rafferma quadriennale (dopo il superamento di una visita nuova medica) nel 2009, ricoverato per l’insorgenza della malattia all’Ospedale civile di Verona il 10 aprile 2012, nonché del fatto che nessuno dei suoi familiari sia mai stato colpito da una simile patologia”.

Inoltre “nel periodo di prestazione del servizio, malgrado operasse in territorio caratterizzato da elevatissimo fattore di rischio connesso al contatto con ambiente contaminato dall’utilizzo di munizionamento all’uranio impoverito ed in genere da forte inquinamento bellico”, il caporalmaggiore, impiegato come mortaista, “non aveva in dotazione alcun dispositivo di protezione per rischio radiologico, né aveva seguito appositi corsi o avuto adeguata informazione sul rischio specifico da esposizione per effetto delle attività addestrative a materiale nocivo”.

Il collegio aggiunge che “le conclusioni del comitato di verifica e dell’intimato ministero, nel senso di escludere ogni profilo di nesso eziologico tra la patologia di che trattasi e l’attività cui è stato esposto il militare, s’appalesano incongruenti e non adeguatamente approfondite”.

Poi la citazione di una relazione firmata dal professor Licinio Contu, che scrisse: “Le esercitazioni militari come quelle avvenute a Quirra e a Capo Teulada hanno sicuramente causato un’intensa produzione di nanoparticelle metalliche e una contaminazione, praticamente permanente, delle aree oggetto delle esercitazioni militari e delle aree circostanti (…). Non c’è alcun dubbio che questa attività di bombardamento esercitata anche su bersagli metallici (carri armati o altro), per la sua intensità, per il tipo di ordigni impiegati e per la loro concentrazione nel tempo, su un’area limitata, deve aver raggiunto e superato temperature di deflagrazione sui bersagli di 3000 °C, che è la condizione che porta alla formazione delle nanoparticelle metalliche. Ma che questo sia avvenuto non è solo un’ipotesi, ne abbiamo le prove dirette”.

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