Il suo posto è dove ci sono fame, dolore e sofferenza. Perché don Ettore Cannavera ai miracoli non solo ci crede, ma li fa. Per davvero. Ai poveri dà voce, i malati psichiatrici li accoglie, per i detenuti chiede dignità, ai più giovani garantisce protezione. E sempre con gli interessi. Tanto che a ogni guerra combattuta vicino a casa nostra, le parole di Cannavera diventano balsamo contro la paura. Ricerca di speranza. Forma di una pace possibile. Esattamente come succede nella sua comunità di Serdiana: dieci ettari a venti chilometri da Cagliari, dove nel 1994, su un terreno di famiglia, il prete vicinissimo a Gesù di Nazareth (ma lontanissimo dal Vaticano) ha dato forma a un giardino della solidarietà. Senza orario di chiusura. Festività comprese.


Don Cannavera, arabi e israeliani combattono una nuova guerra che fa sembrare già vecchia quella ucraina dello scorso anno. I massacri umanitari a chi giovano?

«Alla voglia di dominare l'altro. Al potere sull'altro. In Palestina è nato Gesù di Nazaret, quel signore che già duemila anni fa ci considerava tutti figli dello stesso padre. E poco importa che si chiami Muhammad o Yahweh. Le guerre dimostrano che è ancora enorme il cammino culturale a cui tutti dobbiamo contribuire. Chi non crede in un mondo di pace, chi considera impossibile questo traguardo, commette un errore».


Quale errore?

«Non capire che la sopraffazione non è un diritto. A me fa impressione che ebrei e arabi si combattano proprio dove è nato Gesù. Un grande uomo a cui crede pure la Chiesa ortodossa, che sostiene Putin e l'invasione dell'Ucraina».


Come si fa a educare alla pace?

«Insegnando più antropologia nelle scuole, non solo la storia. Sull'essere umano abbiamo una conoscenza troppo poco profonda. La violenza è un prodotto sociale che si combatte solo con la cultura. Una cosa è la contrapposizione, e ben venga: confrontarsi è necessario. Ma altra cosa è l'aggressione, la paura dell'altro. Io lo vedo tra i ragazzi della mia comunità: c'è un giovane che ha commesso un omicidio. Eppure guarda con sospetto un ragazzo africano che penalmente deve rispondere di un reato molto meno grave. A volte non si va oltre il colore della pelle: non ci si rende conto che abbiamo tutti un cuore, che tutti nasciamo col desiderio di amare ed essere amati, che tutti dobbiamo rispettare ed essere rispettati».


Lei da che parte nella guerra in Palestina?

«Io sono per il riconoscimento della diversità: servono due Stati autonomi. Arabi ed ebrei sapranno convivere. Di certo, la strada non è quella di Hamas né l'occupazione permanente della Striscia di Gaza da parte di Israele. In Palestina il problema di fondo è la cultura. Nemmeno la politica è educata a riconoscere l'altro. Per chi governa, esiste il solo registro delle armi, la legge del più forte. Una legge che a ogni latitudine viene copiata nel quotidiano: tra pochi giorni arriverà in comunità un ragazzo che ha ucciso un coetaneo. Hanno litigato. Poi è salito a casa, ha preso un coltello e ha colpito l'altro».


L'Europa risolverà il conflitto arabo-israeliano?

«I governanti europei che si riuniscono per la pace in Palestina sono gli stessi che lasciano morire in mare migliaia di migranti. Mi viene in mente un dialogo con mia madre, che votava la Democrazia cristiana. Le dicevo: “Perché scegli quelli?”. Lei mi rispondeva: “C'è sa cruxi”. La politica ha bisogno che i cittadini non sappiano e non conoscano».


La politica cosa non sa fare?

«La politica non ascolta, non si ferma ad ascoltare. Come succede alla maggior parte di noi. Basta vedere i talk show: le voci si sovrappongono, gli ospiti si parlano sopra. La violenza non è insita nell'uomo ma è il frutto della sopraffazione costante che riempie il nostro quotidiano. Sia sotto il profilo linguistico che fisico. La questione palestinese è stata generata da un errore: dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati più forti hanno appoggiato la nascita di uno Stato ebraico nel tentativo di espiare l'errore imperdonabile dell'Olocausto. La guerra arabo-israeliana avrà fine solo quando tutti siederanno allo stesso tavolo. L'accordo deve arrivare da fuori. E, come dice il Papa, gli ebrei vanno fermati».


Bergoglio è davvero un rivoluzionario?

«Sì, lui sì. Ma non il Vaticano. Questo Papa è umano e capace, ma prigioniero del Vaticano. La speranza è nel suo successore».


Chi comanda nella Santa Sede?

«Vescovi e preti».


Sui temi dell'immigrazione, se per quello, Bergoglio non è gradito nemmeno a pezzi ampi del Governo Meloni.

«Quando i migranti vengono visti come invasori, il risultato è sotto gli occhi di tutti. Salvini sperava persino che le navi affondassero. Una tesi che pure la Meloni sosteneva prima di diventare premier. Questi sono esempi di mancanza di cultura politica. Quando li sentivo, pensavo: ma ci credono davvero o lo fanno solo per ottenere consenso?».


Che risposta si è dato?

«È la politica a generare la paura. Poi la fomenta e la utilizza per fini elettorali».

Cosa pensa ogni volta che sente “aiutiamoli a casa loro”?

«Bisognerebbe imparare a dire un'altra frase: non sfruttiamoli a casa loro. Il Congo, per fare un esempio, è pieno di russi. Che vivono da padroni. Non abbiamo capito che dall'Africa vengono qui, perché noi Paesi ricchi li abbiamo messi nelle condizioni di scappare. A casa loro possono essere solo oppressi, non hanno nemmeno il diritto a un lavoro. Ci siamo impossessati dell'Africa e dei suoi beni: con le materie prime che hanno, potrebbero darci da mangiare . E si badi bene: quando i migranti decidono di cercare la fortuna da noi, sono consapevoli che in mare rischiano di morire. A volte i politici hanno un concetto disumano di umanità. Sono pericolosi».


Più dei manettari?

«Questo è un altro bel tema. Non troppo tempo fa, il Tribunale di Oristano ha condannato all'ergastolo un ventenne. Ma come viene in mente di fare una roba così?».


Non si rischia di dare il messaggio sbagliato dell'impunità?

«Dare il fine pena mai a un ventenne è una condanna che non ammette speranza, né la concede. Così non c'è funzione rieducativa».


È in contatto con quel detenuto?

«Sì, lo stiamo seguendo. Ha anche ripreso a studiare».


Lei è contrario all'ergastolo?

«Io sono contrario al carcere, parola che non c'è nemmeno nell'articolo 27 della Costituzione sulla responsabilità penale. Si parla semmai di pena, che deve tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale. Io i detenuti li divido in quattro categorie».


Quali categorie?

«In carcere stanno coloro che hanno problemi psichiatrici, e si tratta di persone che in una cella non ci dovrebbero entrare. In carcere rinchiudono quanti hanno commesso reati per fame o trafficato per sopravvivere: nemmeno per loro il posto è giusto. Idem i migranti: vengono arrestati quelli che non abbiamo saputo accogliere. Un giovane straniero ha dovuto trascorrere 120 giorni in carcere per aver rubato del pane. Considerando quanto costa un detenuto al giorno, più di 100 euro, è chiaro che avremmo comprato rosette in quantità».


In carcere chi dovrebbe stare?

«Quel 10 per cento di criminali veri. Oggi i penitenziari sono considerati alla stregua di immondezzai. Ma mentre la spazzatura viene differenziata, tutti i reclusi sono trattati allo stesso modo. Nelle carceri finiscono coloro che non vogliamo vedere. I deboli, i disagiati. È come se la loro presenza ci disturbasse. L'assenza di percorsi rieducativi fa sì che il 70 per cento di chi finisce in cella, esce e poi rientra. Purtroppo viviamo in una società in cui l'altro non viene considerato per quello che può dare, ma è giudicato per quello che fa. Il carcere non è la soluzione di questa povera gente. Ma a quest'orecchio non sente neppure una certa magistratura. La maggior parte delle persone che commette un reato, lo fa perché non ha un lavoro. Per questo nella mia comunità ho realizzato un'azienda agricola».


Com'è organizzata La Collina?

«I ragazzi della comunità hanno tutti un contratto di lavoro e con quello pagano il vitto».


Il responsabile chi è?

«Un condannato per omicidio».


Cosa coltivate?

«Tante cose. L'orto e il frutteto sono per il consumo interno: solo una piccola parte della produzione viene messa in vendita. Il grosso dei ricavi lo facciamo con l'olio e il vino, messi sul mercato usando il marchio La Collina. Le olive, ricavate da 1.200 piante, le portiamo nel frantoio di mio fratello; l'uva invece viene imbottigliata dalle cantine Argiolas».


L'età media degli ospiti?

«Trentacinque anni».


L'ultimo arrivato?

«Una persona che aveva un ruolo istituzionale importante. Poi i problemi in famiglia e l'uso di droghe. Adesso sta decisamente meglio, sta facendo il suo percorso».


Qual è il compito delle comunità?

«Prima accogliere, poi ricostruire i contesti, l'accettazione personale e l'autostima. Centinaia di volte in carcere ho sentito rivolgersi ai detenuti con un “delinquente, muoviti”. Il recupero non passa dagli insulti né dal disprezzo».


Quanti anni si può stare a La Collina?

«Massimo tre. Più tempo non sarebbe utile, perché ci si abituerebbe a una vita troppo tranquilla. Quella reale, invece, è dura e insidiosa».


La comunità di Serdiana in che anno nasce?

«La sfida inizia nel 1994, con pochi posti letto. Nel 1998 diamo forma alla grande comunità. Ci credettero tre magistrati e due politici. Un comunista e un democristiano».


Chi erano i politici?

«Emanuele Sanna e Giorgio Oppi».


Quanti posti ci sono oggi?

«Ventiquattro, divisi in tre sezioni da otto. Una è quella penale, per chi deve finire di scontare la pena; una è riservata a chi ha saldato il proprio debito con la giustizia; la terza sezione ospita adolescenti allontanati dalle famiglie d'origine e in attesa di affido. Per avere un ordine di grandezza: il carcere minorile di Quartucciu costa allo Stato 10 milioni di euro all'anno; le spese della Collina ammontano a 200mila euro. I penitenziari puniscono, mentre noi rieduchiamo. Il primo problema per i detenuti non è la privazione della libertà, ma l'ozio: in carcere non si lavora e si fanno pochissime attività. Si passa il tempo sulla branda a guardare la tv».


Dalle carceri sarde è fuga: tre dei sei nuovi dirigenti appena nominati hanno rinunciato all'incarico. È così terribile lavorare qui?

«I penitenziari dell'Isola sono complessi, soprattutto per composizione: la maggior parte dei duemila detenuti non è sarda. Questo incide non poco nell'organizzazione. Si aggiunga che un direttore deve pensare a tutto, spesso in solitudine, visto la scarsità di risorse, finanziarie e umane. La politica, poi, si occupa pochissimo della vita carceraria».


Sta seguendo le vicende politiche sarde in vista delle Regionali?

«Sì».


Il suo parere conta sempre molto.

«Sollecitato da Soru, ho già risposto e preso le mie decisioni: sono per Alessandra Todde, anche per il suo tentativo di presentarsi uniti per un campo il più possibile largo e non, come al solito, divisi e perdenti».


La Todde la conosce?

«Sì, la conosco per la sua preparazione culturale e politica. Anche se ho qualche riserva sul partito a cui appartiene. Veniva a La Collina per comprare la nostra produzione sotto le feste di Natale».


In questi ultimi cinque anni ha avuto contatti con la Regione?

«Sempre, anche l'altro giorno. Io ho contatti umani con tutti. Anche con la destra. Ma vedo che le proposte migliori le fa il centrosinistra».


Politiche sociali: come funziona la gestione delle politiche sociali in Regione?

«Non bene, per non dire male. Le politiche sociali non sono negli obiettivi di questa Amministrazione regionale. Ma nemmeno il Pd è interessato. La classe dirigente ti ascolta in cambio di un voto. Nel centrodestra c'è qualcuno che mostra disponibilità nei confronti dei più fragili, ma sono casi isolati. Persino fuori dalle Chiese è pieno di persone che scansano i poveri dopo aver fatto la comunione».


Voto complessivo alla politica sarda, intendendo maggioranza e opposizione?

«Do quattro. Sono troppo concentrati su se stessi e sui propri gruppi di appartenenza».


Esiste una famiglia perfetta?

«No, manco per niente. Quando celebro matrimoni, alle coppie chiedo sempre se hanno vissuto insieme prima. È un passaggio necessario, bisognerebbe farlo per almeno tre o quattro anni. È indispensabile conoscersi nelle debolezze e nelle diversità, culturali e politiche».

Ai single è concesso solo prendere in affido bambini disabili: non trova che abbiano gli stessi diritti delle altre coppie?

«I bambini devono avere la possibilità di conoscere entrambe le figure, la maschile e quella femminile. In assenza di questa possibilità, si può fare ricorso alla famiglia con un solo genitore. Ma sempre costruendo relazioni complete all'esterno».


Aborto: favorevole o contrario?

«Non sono schierato. All'aborto, se non è clandestino, sono favorevole quando c'è una reale necessità. Il motivo deve essere grave e valido, frutto di una scelta consapevole ed eccezionale».


Matrimoni omosessuali?

«Sì, sono favorevole. L'amore è tra due persone, non tra un uomo e una donna necessariamente. Parlerei infatti di convivenza amorosa».


Utero in affitto?

«No, su questo il mio “no” è assoluto. La vita inizia dentro, appena l'ovulo è fecondato. Non si può generare su commissione».


Vendita droghe leggere?

«Favorevole, a condizione che prima venga attivato un percorso educativo e di responsabilizzazione. Lo Stato vende l'alcol e lo fa per guadagnarci».


Eutanasia?

«Per me credente, il fine vita non è la fine. Anzi. La morte è solo un cambiamento. Per questo non capisco chi si oppone. Penso a mio padre: aveva 85 anni quando si spense. Da due era allettato. Mio fratello, medico, portava ogni giorno una montagna di farmaci. Gli dicevo: Luciano, perché questo accanimento? È solo sofferenza, per di più a un costo elevato per le famiglie e la società».


La Sardegna è una terra che può dare ancora speranza?

«Se guardo le persone che si impegnano per gli altri, sì che vedo speranza. Ma se guardo la situazione politica e culturale, vedo poco cambiamento. Vedo troppa disattenzione verso i più deboli».


Il suo migliore amico chi è?

«Era Giorgio Pisano. I miei più cari amici sono i miscredenti, persone con una visione diversa dalla mia. E non potrebbe essere diversamente quando l'arricchimento e la crescita personali sono l'obiettivo. Con Giorgio avevo un rapporto molto forte e intenso. Era un giornalista di razza. Un uomo libero. Retto, onesto e preparato. C'ero quando Giorgio è morto. Gli ho stretto la mano».

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