La Regione aveva ragione: la Corte Costituzionale ha bocciato il ricorso del Consiglio dei ministri contro la legge che innalzava a 1800 (da 1500 ordinari) il numero di pazienti che possono essere seguiti da ciascun medico di famiglia. In estrema sintesi: per la Consulta il diritto alla salute, se c’è un’emergenza, prevale rispetto alla rigida normativa che porta alla stesura degli accordi contrattuali nazionali e alle loro integrazioni regionali.

L’argomento della contesa Stato-Regione era la legge sulle “Disposizioni urgenti in materia di assistenza primaria”, voluta dall’assessore alla Sanità Carlo Doria e approvata dal Consiglio regionale a marzo dell’anno scorso. 

Tre le altre previsioni, c’era l’aumento del massimale per i  medici di medicina generale: su base volontaria, era data la possibilità di ampliare la platea dei pazienti fino a 1800, quando il tetto ordinario era di 1500. Un intervento necessario, visto il drastico calo dei medici sul territorio (tra numero chiuso e pensionamenti) che ha lasciato migliaia di sardi senza assistenza. Non una soluzione strutturale, ma almeno qualcosa era stata fatta. 

Il Governo, però, ha sostenuto che quella legge fosse incostituzionale. A giugno l’ha impugnata davanti alla Consulta. Leggi alla mano, la tesi di palazzo Chigi sostenuta dall’Avvocatura dello Stato era: l’eventuale aumento dei pazienti seguiti da ogni medico può essere deciso solo nell’ambito di una contrattazione collettiva nazionale,  seguita da un’eventuale integrazione regionale. E comunque si può fare solo per un periodo di tempo limitato (due mesi), non previsto dalla legge sarda. Alle Regioni si legge nel testo del ricorso, «è preclusa l’adozione di una normativa che incida su un rapporto di lavoro già sorto e, nel regolarne il trattamento giuridico ed economico, di sostituirsi alla contrattazione collettiva, fonte imprescindibile di disciplina (...)  Pertanto, la difesa statale sostiene che la disposizione impugnata costituisce esercizio di una competenza che esula da quelle riconosciute al legislatore regionale dalla legislazione statale di riferimento, in quanto «autorizza una deroga in aumento al numero massimo di assistiti, sostituendosi alle previsioni della contrattazione integrativa e, al contempo, discostandosi da quelle della contrattazione collettiva nazionale». 

La Regione si è opposta, portando argomenti normativi e sostanziali.  L’ufficio legale di Villa Devoto hanno sottolineato che la Sardegna «già per la sua conformazione territoriale, caratterizzata da pochi grandi centri urbani e molteplici paesi sparsi in un vasto territorio, lontani e mal collegati, situati anche su isole minori e in montagna, ha strutturalmente difficoltà a garantire l’assistenza primaria nelle aree disagiate». Inoltre la normativa nazionale che aveva autorizzato i pensionamenti anticipati  ha «ridotto drammaticamente il numero di medici in servizio, aggravando ulteriormente la situazione, e il Covid ha ulteriormente reso poco attrattiva la scelta, da parte dei medici, della formazione in medicina generale e, comunque, di tale tipologia di incarico». 

Sul piano normativo poi, la Regione «nelle more dell’adozione del nuovo accordo integrativo regionale, i cui tavoli sono stati già avviati ha esercitato la facoltà concessa» dalla legge nazionale di riferimento «prevedendo, per tale periodo di tempo, che i medici che operano nelle aree disagiate possano chiedere di essere autorizzati a superare il massimale di 1.500». 

Insomma: c’era da tappare una falla e la Regione lo ha fatto, in attesa di chiudere le trattative regionali sul rinnovo del contratto. Per i giudici della Consulta la scelta è stata giusta. O, comunque, è stata adottata nel rispetto della Costituzione. 

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