Il silenzio di Antioco, Paola, Davide, Marco e delle tante vittime della guerra: a Lanusei il ricordo in Consiglio comunale
Il silenzio che si sceglie, quello operoso, quello che ammutolisce, quello omertoso e quello che si subisce, nell’indifferenza: le parole del presidente dell’assemblea cittadina Matteo StochinoPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Riportiamo di seguito l’intervento del Presidente del Consiglio Comunale di Lanusei in memoria di Monsignor Antioco Piseddu, Paola Murru, Davide Pilia e Marco Mameli.
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Care colleghe e cari colleghi,
Prima di aprire i lavori di questo Consiglio comunale, vi invito a condividere un momento di raccoglimento e di memoria. Un momento che, per sua natura, ci porta a confrontarci con il silenzio.
In questi mesi, la nostra comunità ha perduto persone che – in modi diversi – hanno rappresentato punti di riferimento, esempi, domande aperte. Oggi ricordiamo Monsignor Antioco Piseddu, la Dott.ssa Paola Murru, un giovane figlio di Lanusei, Davide Pilia. E ricordiamo doverosamente, necessariamente, anche Marco Mameli, un altro figlio dell’Ogliastra la cui vita è stata spezzata troppo presto.
C’è un filo invisibile ma indissolubile che lega i nomi che oggi ricordiamo. È il silenzio. Ma non un unico, monolitico silenzio; no, ce ne sono tanti.
C'è il silenzio che ci avvolge dopo: come un velo denso, quando ci manca qualcuno che ha lasciato un'impronta indelebile nelle nostre vite. È quel silenzio gravido che ci toglie le parole, che impone rispetto, che cela pudore e porta con sé un peso inestimabile. Come possiamo trovare le parole quando il dolore ci ammutolisce?
Poi c'è il silenzio che si sceglie: quello di chi agisce senza clamore, con fermezza e coerenza, lontano dai palcoscenici e dai protagonismi. Un silenzio operoso. Quanti di noi scelgono questo cammino, lontano dai riflettori?
E poi c’è il silenzio che si subisce: quello dell’indifferenza, della paura, dell’omertà. Quante volte abbiamo assistito a questo silenzio, senza agire? Quello che, troppo spesso, diventa rassegnazione.
Mons. Antioco Piseddu in silenzio non è stato mai. Non ha mai cercato il rumore, ma ha sempre avuto il coraggio di parlare. Lo ha fatto con voce mite, ma con parole forti, chiare, profonde. Lo ha fatto da dietro l’altare, ma anche per strada, nelle fabbriche, nelle scuole, nei cortei, tra la gente. Ha rotto il silenzio di fronte alle ingiustizie, alle povertà, alle solitudini.
In tempi come i nostri, lacerati da guerre militari ed economiche, dal disorientamento, dalla crescente disumanità, la sua voce ci manca terribilmente. Oggi, di fronte alla distruzione in corso a Gaza, documentata con crudezza anche dalle immagini satellitari aggiornate nei giorni scorsi, che mostrano interi quartieri, abitati fino a pochi mesi fa e oggi rasi al suolo, sentiamo il vuoto delle voci autorevoli.
Siamo sopraffatti da un silenzio tombale, istituzionale, mediatico, politico, che ci indigna e ci interroga. Come avrebbe reagito Monsignor Piseddu a un tale silenzio? Sappiamo che Antioco, con la forza gentile che lo ha sempre contraddistinto, non avrebbe taciuto.
La Dott.ssa Paola Murru, presidente emerito del Tribunale di Lanusei, ha invece scelto un altro silenzio: quello dell’impegno quotidiano, del lavoro serio, dell’intelligenza discreta. Avrebbe potuto aspirare a incarichi più alti, ad ambiti più prestigiosi, ma ha scelto di restare qui, in Ogliastra, a difendere un presidio delicato e fondamentale per la giustizia e la democrazia. Anche lei, accanto a Mons. Piseddu e alle istituzioni locali, non ha mai fatto mancare il suo sostegno nelle battaglie per la sanità, per il tribunale, per il diritto dei cittadini a non essere dimenticati. La sua presenza silenziosa è stata garanzia di ascolto e di
equità. Il suo addio ci ha lasciati più soli. Quante volte abbiamo sottovalutato la forza di questo silenzio operoso?
E poi c’è Davide Pilia. Quindici anni. Una vita che stava appena cominciando. La sua morte improvvisa ha lasciato la comunità attonita, incapace di reagire. Un silenzio gelido, muto, come quello che cala dopo una tempesta. I suoi amici lo hanno salutato facendo sgasare i motorini e suonare le note di una canzone di Gazzelle di qualche anno fa: “Destri”. Il protagonista della canzone realizza che nonostante i pugni contro il muro (i destri del titolo, appunto) certi momenti ormai passati non torneranno più e sembra davvero raccontare il senso di sospensione che tutti abbiamo vissuto e stiamo vivendo. Eravamo sospesi quei giorni lì, lo era tutta Lanusei. E ancora oggi non abbiamo parole per spiegare, per consolare, per capire davvero. Come possiamo trovare parole per spiegare? Come possiamo consolare? Come possiamo davvero capire? Ma abbiamo un dovere: quello di ascoltare il silenzio che ci ha lasciato, di non voltare lo sguardo davanti al disagio, alla solitudine, alla sofferenza nascosta dei nostri ragazzi.
E infine c’è un altro silenzio. Forse il più insopportabile. È il silenzio dell’omertà, il silenzio che si chiude su sé stesso, che copre, che nasconde. È il silenzio che da troppi mesi avvolge l’omicidio di Marco Mameli, ucciso in mezzo alla gente, durante una festa di carnevale a Bari Sardo. Un delitto brutale, irrisolto, che pesa non solo sulla famiglia, ma su tutti noi. Le indagini non portano risposte, le voci si spengono, gli occhi si abbassano.
Ma a Ilbono no. A Ilbono, decine di cartelli sono appesi ovunque, sui balconi, sui muri, sui ponti: chiedono verità, chiedono giustizia. Non lasciano che quel silenzio diventi normalità. E in quel grido muto si fa strada una verità che conosciamo bene: la giustizia negata è un’offesa per tutti. Lo diceva Fabrizio De André, in Disamistade, per citare un cantante che anche noi adulti conosciamo, con una frase che oggi ci accompagna nel cuore. Cantava di un’assenza apparecchiata per cena. È questo il silenzio che circonda la morte di Marco: una sedia vuota che brucia, una domanda che non può restare senza risposta. Possiamo permettere che questa domanda resti senza risposta?
L’omicidio di Marco Mameli è stato il presupposto per imporci, in questa stessa aula, qualche mese fa, una riflessione più ampia sul contesto in cui vivono i nostri ragazzi. Troppi giovani, spesso giovanissimi, anche di 13 o 14 anni, oggi partecipano a feste e serate in cui l’abuso di alcol è normalizzato, in cui il disorientamento si manifesta nel chiasso e nello scontro. Davanti a fenomeni come questi la nostra comunità ha il dovere di non voltarsi dall’altra parte, di non limitarsi a stigmatizzare, ma di comprendere, prevenire e proporre alternative.
Come amministrazione comunale, per quanto di nostra competenza, l’abbiamo detto e continueremo a dirlo, non per vanagloria ma per diffondere l’offerta, stiamo portando avanti azioni concrete: progetti di inclusione sociale, incentivi alla pratica sportiva, riqualificazione di spazi urbani che possano diventare luoghi di incontro positivi. Con i servizi sociali sono attivi sportelli di ascolto dedicati ai ragazzi e alle famiglie. La collaborazione con l’Istituto Comprensivo è continua e profonda.
Dobbiamo ammettere, però, che la connessione con le scuole superiori è ancora debole, e non per volontà dell’una o dell’altra parte, ma per una oggettiva frammentazione di competenze. È qui che dobbiamo fare un salto di qualità, costruendo ponti stabili, dialoghi costanti. Qualcosa si è già mosso: penso all’incontro sulla sicurezza stradale organizzato poche settimane fa, un vero esempio di collaborazione riuscita.
A proposito di ponti, mentre qualcuno pensa a finanziare quelli di fumo, i ragazzi che erano presenti al Consiglio del 6 marzo hanno chiesto a noi adulti di costruirne uno insieme, un ponte generazionale che consenta loro di partecipare, di collaborare, di essere ascoltati nelle scelte che li riguardano.
Forse questo ponte lo abbiamo già: si chiama Consulta Giovanile. Lo abbiamo già avviato in passato, ma non ha attecchito. Forse abbiamo sbagliato qualcosa nella comunicazione, forse le fasce d’età non erano quelle giuste. Ma oggi possiamo e dobbiamo rilanciarla, ridefinendola insieme ai ragazzi. Dando loro non solo uno spazio, ma un ruolo reale.
Lanusei ha già tanti esempi: il Comitato di Don Bosco è animato da giovani che stanno immaginando eventi e momenti di socialità proprio per rimanere nel loro paese, per viverlo bene. La Pro Loco continua a essere un motore di coinvolgimento, le associazioni sportive e culturali sono un presidio prezioso. Facciamo in modo che i giovani diventino protagonisti e, soprattutto, insegnino a noi adulti ad ascoltarli. Convochiamo le associazioni, rilanciamo l’idea della consulta giovanile. Non possiamo parlarne in questa seduta, ovviamente, ma fermiamoci dopo il Consiglio noi amministratori e fissiamo a stretto giro un incontro sul tema.
Nel solco tracciato da Monsignor Piseddu – voce limpida e coraggiosa nelle ingiustizie del mondo – voglio avanzare una proposta semplice ma significativa: appendere alla facciata del Comune una bandiera della pace. Un simbolo universale, senza appartenenze politiche, che non può e non deve essere visto come divisivo. Un richiamo netto e visibile all’articolo 11 della nostra Costituzione, un gesto che rifiuta la guerra ovunque essa si combatta.
Non è la bandiera della Palestina, non è la bandiera di una parte. È la bandiera della convivenza, del rispetto, della tutela dei civili, degli innocenti. Qualche settimana fa abbiamo affisso un sudario bianco sulla facciata del Comune: un drappo silenzioso ma potente, per denunciare le violazioni del diritto internazionale umanitario da parte del governo israeliano, che ha ostacolato l’arrivo degli aiuti, bombardato aree civili e agito in spregio alle convenzioni di Ginevra, come documentato dalle principali agenzie ONU e da organizzazioni indipendenti.
Lanusei, però, non si limita alle parole. Lo abbiamo dimostrato quando, insieme alla nostra assessora ai servizi sociali Sandra Aresu, siamo andati personalmente a prendere un pullman carico di rifugiati ucraini in fuga dalla guerra. Oggi quelle donne e quei bambini vivono, lavorano, frequentano le nostre scuole, fanno parte della nostra comunità.
Quelle donne ci hanno raccontato lo strazio dei bombardamenti. Quello stesso strazio che i nostri nonni ci raccontavano quando, durante la Seconda guerra mondiale, dell’accoglienza che riservavano agli sfollati che provenivano dal cagliaritano. Alla nostra generazione è mancato quel racconto diretto. Ma le ucraine lo hanno reso di nuovo attuale, concreto, tangibile.
E proprio per questo diciamolo forte: il dolore della popolazione ucraina non è diverso da quello che vive la popolazione di Gaza, o da quello che ha vissuto il Donbass, o da quello che patisce il popolo siriano, o da chiunque sia vittima della guerra in qualunque parte del mondo. La bandiera della pace è la nostra risposta: silenziosa ma netta, simbolica ma concreta. È il nostro modo per dire: “Mai più.”
Prima di ascoltare quanti dei presenti vorranno intervenire, per tutti i protagonisti silenziosi di questa apertura di seduta – per Antioco, Paola, Davide e Marco – vi chiedo ora di unirci in un minuto di silenzio. Ma che sia un silenzio pieno di memoria, di gratitudine, di responsabilità. Un silenzio che non dimentica, non rimuove e non accetta. Un silenzio che, anche di fronte a ciò che accade a Gaza, non si rassegna e continua a interrogarsi sul perché di tanta indifferenza.
Grazie
Matteo Stochino, Presidente del Consiglio Comunale di Lanusei