Monsieur, ci segua in caserma. È il 13 ottobre del 1992. È mezza mattina nel borgo di Porto Vecchio, Corsica orientale. I tornanti per arrivarci scalano la costa con vista mozzafiato. Da una parte il mare, dall'altra, a strapiombo, la montagna. Foresta, nel vero senso della parola, con l'intercalare di lentischi e macchia mediterranea. I profumi sono quelli intensi della Sardegna, a un tiro di schioppo, oltre le Bocche di Bonifacio. L'albergo è modesto. La hall è piccola, le scale non sono quelle per la discesa di una vedette dell'avanspettacolo. L'albergo da quattro giorni brulica di occhi sparsi qua e là, appesi sugli alberi e accompagnati da indifferenti passeggiatori d'altri tempi. Presidiano con discrezione la dimora di Giulio Manca di Bortigali.

Lui, però, sconosciuto e anonimo intestatario di un documento falso, non si è mai presentato. Al suo posto nell'hotel U Palmu, con vista sul fiordo del paesino corso, c'era Matteo Nicolò Boe, capo dell'anonima sarda. Non è solo, con lui c'è Laura Manfredi, compagna di mille avventure e madre dei suoi primi due figli. Boe ha scelto la Corsica per godersi per qualche giorno la famiglia, in attesa del terzo erede, che dopo tre mesi avrebbe visto la luce. Tre figli concepiti nel mezzo della latitanza, come se per questo erede di Graziano Mesina non esistesse limite all'ardita sfida allo Stato. In Corsica si sentiva a casa, tanto da potersi permettere villeggiatura in albergo e passeggiate al mare. Quella mattina di 28 anni fa, però, l'eremo blindato di Porto Vecchio crollò in un istante. Un gendarme con fare gentile aveva appena varcato l'uscio d'ingresso del rifugio di Monsieur Matteo Boe. Le cronache raccontano una resa incondizionata, davanti a moglie e figli. Non andò esattamente così. L'albergo era circondato, cinquanta uomini tra francesi e italiani. Alcuni in borghese, altri con equipaggiamento da cacciatori d'uomini. Ad arrendersi, Boe, non ci ha pensato nemmeno per un attimo. Una torsione della spina dorsale, uno scatto e una reazione incattivita per l'imboscata a casa sua.

La cattura

La colluttazione è un petardo, un grappolo di poliziotti, in un nanosecondo, gli sono sul collo. Il volto brulica di fuoco, in trappola nella sua oasi di libertà, in uno Stato straniero a cinquanta minuti dalla sua patria. Se non ci fossero stati davanti a lui i bambini e la moglie sarebbe andata diversamente. I ferri scattano ai polsi. Si è fermato, come di colpo. I gendarmi hanno studiato a tavolino il personaggio, astuto e reattivo, razionale e spregiudicato. Lo conoscono bene gli investigatori sardi che accompagnano l'operazione. Non bastano le manette, servono i ferri alle caviglie. Non lo ha tradito la Corsica, ma quella mossa azzardata di Laura Manfredi. Proprio lei che, il primo ottobre del 1986, era andata a liberarlo in gommone dal carcere dei capi dei capi, nell'isola dell'Asinara. Unica fuga da quella Cajenna di Stato dove Borsellino e Falcone studiavano il maxi processo alla mafia, quello che avrebbe segnato per sempre la loro vita.

Boe è caduto in terra amica, tradito da un passo falso. L'enclave corsa è, del resto, da sempre il punto di arrivo di latitanze lunghe e impenetrabili, con intrecci politici e terroristici che hanno impensierito servizi segreti e 007 di mezza Europa.

L'industria dei sequestri

In quegli anni il porticciolo che si staglia all'orizzonte dell'albergo che ospitò la cattura di Matteo Boe era poco più che un'insenatura per approdi di pescatori. Ora quel golfo brulica di centinaia di barche da nababbi, yacht milionari da mille e una notte. Il lungomare respira senza mascherine. I turisti riempiono locali e ristoranti come se il Covid non fosse mai esistito. I barconi per le gite alle isole estreme della Corsica sono pieni come se il distanziamento sociale fosse un'invenzione italiana. Per l'isola di Cavallò posti solo in piedi, quelli seduti sono tutti occupati. Su uno scoglio mozzafiato, nel parco illibato del piccolo arcipelago corso, c'è il paradiso di Giulio De Angelis, una delle vittime della stagione dei sequestri da parte dell'anonima sarda. Rapimento d'autore, con firma indelebile e a vita: orecchio mozzato. Villa irraggiungibile, disseminata sul granito, arrampicata sulle vette dell'isolotto. Ora in questo tratto tanto sardo in terra francese si riannoda il filo rosso tessuto come una ragnatela, in lungo e in largo, tra la Sardegna e la Corsica. Storia di sequestrati e sequestratori, latitanti e primule rosse.

Dall'orecchio sfregiato di Giulio De Angelis, era giugno del 1988, tre miliardi di lire di riscatto, a quello di Salvatore Scanu, anch'egli menomato, per un bottino da un miliardo e 200 milioni di lire. Tutti firma autografa di Matteo Boe.

Il punto di contatto

E infine il sequestro che segnò di fatto la fine dell'anonima sequestri, quello del piccolo prigioniero Farouk Kassam. Un bambino di sette anni a cui la malvagità aveva distaccato la parte superiore dell'orecchio sinistro. È qui il punto di contatto più ardito tra le primule rosse del banditismo sardo, Matteo Boe e Grazianeddu Mesina. Da una parte i sequestratori e dall'altra il bandito spacciato per buono che si erge a mediatore tra le parti. Cerca il riscatto Mesina, apparentemente non quello per liberare il bambino, ma per conquistare la sua riabilitazione sociale. Il sequestro del piccolo Farouk è l'intrigo più perverso dell'anonima sarda. Il confine tra il mediatore e i sequestratori fu quanto mai labile e sfuggente, intriso di equivoci e ambiguità.

Mesina vuole ritagliarsi il ruolo ardito del mediatore. La cronaca racconterà tutt'altro. L'asprezza della trattativa, la millanteria, non fanno breccia su Fateh Kassam che ammette: non ho mai capito da che parte Mesina stesse, anzi, alla fine mi ero convito che giocasse dall'altra parte. L'ex primula rossa tenta di accreditarsi in ogni modo. Il bambino è nelle mani di Matteo Boe ma Mesina è risoluto. A Marion Bleriot Kassam, madre di Farouk, nelle sale del vescovado di Nuoro, in compagnia del vescovo monsignor Giovanni Melis e di don Luigino Monni, parroco di Galanoli, dichiara: «Da questo momento l'unico contatto tra voi e i rapitori sarò io. Non ci saranno altre lettere, né altre telefonate che non provengano da me».

Parti invertite

Il castello di Mesina crolla tra i dubbi di Fateh e la lettera che don Luigino Monni recupera per strada nei tornanti della sua parrocchia rupestre di Orgosolo, con dentro il messaggio più cruento di Matteo Boe, l'orecchio mozzato del piccolo Farouk. Ora le parti si sono invertite, Matteo Boe fa la guida turistica, Graziano Mesina ha ripreso la sua vocazione naturale, quella del latitante. Per farlo ha scelto i modi beffardi di sempre, mettendo sotto scacco lo Stato. La notizia fatta trapelare ieri sera dagli ambienti vicini alla primula rossa di Orgosolo sulla scelta di devolvere i propri vestiti ai poveri appartiene al copione di un bandito che parla e ascolta in codice. E messaggio cifrato appare anche la confessione dei familiari che ammettono con stupore: ha lasciato a casa i documenti di riconoscimento.

Graziano Mesina conosce come le sue tasche le regole della latitanza. Oggi più che mai deve tagliare i ponti, azzerare ogni possibile contatto con ciò che si è lasciato alle spalle. Il mandato di cattura che i magistrati hanno spiccato è internazionale, vale per tutta l'area Schengen, Corsica compresa.

Al crocevia tra Bastia e Ajaccio la segnaletica è perforata da colpi di proiettile. Fucilate su cartelli nuovi. Giusto per non dimenticarsi che siamo a un tiro di schioppo dal Supramonte. Sui traghetti verso la Corsica viaggiano patate di Villasor e mangimi zootecnici, verso la Sardegna i carichi sono di bestiame e legno. Tanto legno, strappato ai boschi infiniti della Corsica. Concessioni demaniali dove lavorano arabi ma anche molti sardi. Foreste piene di casolari, più di quanti ce ne siano in tutto il Supramonte. Mesina non ha i documenti ma usa la carta d'identità del silenzio e del latitante. Non ama il telefono e sarà difficile intercettarlo nella terra promessa dei latitanti sardi in Corsica.

Mauro Pili

(inviato)
© Riproduzione riservata