«Restituire l'area di Tuvixeddu? Siamo sempre stati disponibili a farlo e abbiamo cercato decine di volte di trovare un accordo con i governi regionali e con le amministrazioni comunali per definire transattivamente l'intera vicenda e il complesso dei contenziosi. Ci sono stati anche incontri ma non si è mai andati oltre la superficie, non ci sono mai stati atti concreti. Certo non possiamo regalarla perché dietro questa vicenda ci sono trent'anni di lavoro e di investimenti».

Giuseppe Cualbu, amministratore delegato di Nuova iniziative Coimpresa, spiega il punto di vista della società dopo l'ultima sentenza della Cassazione che ha sancito che non poteva essere il lodo arbitrale a decidere sul risarcimento da 83 milioni di euro all'impresa.

Il dibattito

Dopo la decisione dei giudici ha ripreso vigore il dibattito sul futuro dell'area. Il mondo ambientalista ha chiesto che i soldi che rientreranno alla Regione siano investiti nel compendio, l'ex componente della Commissione del paesaggio ed ex assessora ai Beni culturali della Giunta Soru, Maria Antonietta Mongiu, che ritiene la sentenza «una pietra tombale sulla vicenda», ha anche proposto alla famiglia Cualbu di regalare i suoi terreni alla collettività con un gesto che passerebbe alla storia.

Vicenda da concludere

Cualbu non usa toni polemici ma argomenta le sue ragioni. «La vicenda è tutt'altro che conclusa», dice, «sia perché la Cassazione non entra nel merito delle ragioni o dei torti ma sostiene solo che la lite non fosse arbitrale e sia perché un altro lodo ha ribadito i torti della Regione, nei confronti della quale noi siamo ancora creditori. Ma la domanda è: ci sarebbe davvero da gioire se questa vicenda si chiudesse senza riconoscere all'impresa un risarcimento del danno subito e una compensazione per la cessione alla Regione e al Comune delle aree del parco archeologico e del parco urbano?»

I diritti acquisiti

Per Cualbu «si tratta di stabilire se una volta che un'impresa stipuli un accordo con la pubblica amministrazione, con un Comune, una Regione o con lo Stato, la parte pubblica possa poi pentirsi dell'accordo e annullare tutto, semplicemente perché quell'accordo non gli sembri più desiderabile. Si tratta di una prerogativa della politica, ma è essenziale che le imprese travolte dal ripensamento ricevano una adeguata compensazione economica del danno ricevuto. Diversamente», spiega l'imprenditore, «si scaricano sulle imprese i costi del ripensamento politico, come accade in questo caso: si crea un pubblico accanimento su un progetto all'epoca ritenuto di avanguardia, utile alla riqualificazione dell'area archeologica e del parco urbano, valutato e approvato paesaggisticamente dall'amministrazione regionale oltre che da quella comunale e statale. Non solo», prosegue Cualbu, «si dimentica che proprio l'impresa nel contesto dell'accordo aveva trasferito queste aree, che costituiscono l'80% dell'intero compendio, al Comune e che sempre l'impresa aveva condonato a quest'ultimo una parte rilevante degli indennizzi, milionari anch'essi, dovuti per gli espropri illegittimi subiti di fatto in passato. Si dice ora, vent'anni dopo la sottoscrizione dell'accordo, che la lite non sia arbitrabile e che occorre ricominciare il processo e si insiste solo sulla restituzione che grava sull'impresa, dando per scontato che nulla le vada riconosciuto».

Accordi da rispettare

A giudizio di Cualbu, «se così fosse, la prima urgenza sarebbe quella di dichiarare che in Italia gli accordi con le pubbliche amministrazioni non hanno valore, che il sistema giudiziario non li protegge, che le imprese responsabili di aver confidato nell'impegno dello Stato è bene che chiudano e stiano lontani gli investitori perché in Italia è impossibile operare. Ma non è così: lo Stato ha la potestà politica di cambiare i suoi programmi ma deve assumersi le conseguenze economiche di tutto ciò».

Il progetto

Per Cualbu tanti tra coloro che si esprimono lo fanno senza sapere tante cose, ad esempio «che l'edificazione non coinvolgeva l'area archeologica». Inoltre, conclude, «il parco urbano è ancora in gran parte abbandonato e chiuso al pubblico, le imponenti opere viarie sono abbandonate e ormai inservibili ed il quartiere è nel degrado generale. C'è da gioire», è il quesito finale, «o piuttosto occorre cercare una soluzione che tenga conto di tutto ciò?»

Fabio Manca

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