Stefanina, una vita tra droga e galera: "Spacciare? L'ho fatto per mantenere i miei otto figli"
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"Aiutatemi, non voglio morire in carcere".
Nonna Galera ha un corpicino minuto, braccia sottili, mani scheletriche. È una vecchina spenta, insaccata in un letto d'ospedale in attesa che vengano a riprenderla per portarla in cella. Non è piantonata: forse per pietà, forse per mancanza di personale o perché pensano che tanto non possa far più danni.
Eppure fino a poco tempo fa era considerata un boss dello spaccio, la regina della coca nel quartiere cagliaritano di Is Mirrionis. Stefanina Malu ha 83 anni, una trentina trascorsi dietro le sbarre. Analfabeta («ma so firmare»), ha cresciuto una famiglia di otto figli: quattro, tossicodipendenti, sono morti. E a lei hanno dato ogni volta tre ore di permesso per seguirne i funerali. Deve scontare ancora poco più di un anno ma non ce la fa: ha problemi di cuore e di depressione, si sposta su una sedia a rotelle, dorme poco e vive in uno stato di prostrazione permanente. Solo a tratti una luce furiosa le accende gli occhi.
«Al magistrato che deve decidere se restituirmi la libertà chiedo solo di venire qualche minuto qui, venga a vedere come sono conciata». Per intervistare nonna Galera è necessario indossare camice, mascherina e cuffietta: a Medicina 2 del San Giovanni di Dio, dov'è ricoverata per la terza volta in due mesi, c'è un virus intestinale che sta creando qualche preoccupazione. Si avanza dunque intabarrati, confusi nel fiume dei visitatori. Nessuno fa domande, nessuno controlla. Stanza H, ingresso libero: il detenuto più anziano d'Italia è pronto a parlare. Ogni tanto però il viso si affila in una smorfia di durezza e sbrocca come se stesse dando ordini, senza sorrisi. «Non mi ricordo quando ho cominciato a spacciare. Mi ricordo bene invece la prima volta che sono stata arrestata: una retata gigantesca, c'era il rione pieno di poliziotti».
Da allora la sua esistenza è tutto un entra-e-esci.
«Purtroppo sì, anche quando non c'entravo nulla. Come l'ultima volta: mi hanno portato via perché ero Stefanina Malu. Tu sei la numero uno in Sardegna, mi ha detto un tipo della Narcotici. Inutile rispondere a quelli lì, tanto hanno sempre ragione loro».
Beh, non dirà d'essere innocente?
«Ho spacciato, non lo nego. L'ho fatto per i miei figli, perché la droga è un lavoro come un altro. Ci serviva per campare. Senza eroina, come avrei fatto a tirare su la famiglia? È facile per voi fare tutti i soliti discorsi: non si può, è fuorilegge, fa male...».
A proposito: in tanti anni di professione, quante dosi ha preparato?
«E che ne so, mica stavo a contarle. Molte, poche? Non ne ho idea. Ma non mi sono mai vergognata: nel quartiere mi volevano tutti bene».
Aggressioni?
«E perché? Non ho fatto male a nessuno: stavo al mio posto, facevo quel che facevo e chi voleva qualcosa veniva a chiedermela».
Quanti cadaveri pensa d'avere sulla coscienza?
«Non dica stupidaggini. Io, di morti sulla coscienza, non ne ho neppure uno. Non ho mai venduto roba sporca».
Sempre tutto pulito?
«Le ho già detto che ero molto conosciuta, giravo per il rione liberamente e senza paura».
Però durissima, spietata.
«Chi, io? Le faccia dire alla polizia queste cose. Potrei tornare a Is Mirrionis anche domani, non correrei rischi. Voglio andare a vivere a casa d'una mia figlia: lei sola può assistermi, lei sola può aiutarmi ad aspettare la morte senza paura».
La droga l'ha fatta ricca.
«Ricchissima. Vivo in una casa comunale, ho l'avvocato d'ufficio e arrivo pilu pilu a fine mese. Gliel'ho detto: ho spacciato per reggere la famiglia. Otto figli non vivono d'aria. Eppoi, non ero l'unico spacciatore».
Nel senso che nel quartiere l'eroina era la prima fonte di reddito?
«A questa domanda non so rispondere. Io ci ho lavorato, come ci hanno lavorato tanti. E se proprio lo vuole sapere, non ho pentimenti. Tornando indietro rifarei tutto quello che ho fatto perché non avevo altra scelta».
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Nonna Galera sta distesa sul letto. Lascia che siano le mani a parlare insieme a lei. Di fronte alle domande più fastidiose, sorride e, prima di rispondere, aspetta che cali la tensione. Per quel che si sa, ha fatto la spacciatrice a tempo pieno senza cadere nella trappola in cui sono finiti tanti: nessuna collaborazione con la polizia, telegrafica coi magistrati che negli anni l'hanno interrogata, neanche un pizzico di spacconeria. Non fa la malavitosa, insomma. Ma tiene botta tradendo un carattere forte, autoritario. Conosce benissimo le regole della sopravvivenza in un certo mondo e proprio per questo l'hanno rispettata. Nella stanza dov'è finita dopo l'ultimo malore, c'è un'altra paziente: sta male, deve essere imboccata, guarda un punto fisso sulla parete con gli occhi semichiusi. Stefanina le rivolge ogni tanto un'occhiata di solidarietà ma niente di più, non hanno nulla da dirsi. D'altra parte, a lei nessuno fa domande: nel reparto tutti sanno chi è e perché sta lì ma intorno le hanno costruito un muro di discrezione. «So che sono la più vecchia dei carcerati italiani: ma è possibile tenere dentro una disgraziata che deve fare 84 anni?». Non tutto quello che dice è comprensibile, qualche volta mugugna pensieri a voce alta come se stesse discutendo con se stessa. Giocoforza è diventata un'esperta di prigioni.
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«Uta è un posto terribile, un inferno. Mi trattano bene tutti, le guardie e gli altri. Sempre gentili ma io non ce la faccio lo stesso. E neanche loro: sono scontenti gli agenti della Penitenziaria, i detenuti e anche i volontari che vengono a trovarci. Sbagliato dall'inizio alla fine, quel carcere».
Nostalgia di Buoncammino?
«Non c'è paragone. A Buoncammino si stava bene, potevi avere una vita normale lì, quasi come quella che fai a casa...».
Graziano Mesina dice che è il peggior penitenziario d'Italia.
«Ah, dice così? A me non sembra. Io ci sono stata tante volte e non mi posso lamentare. Certo, è un carcere, cosa credi di trovarci dentro?».
C'è qualcosa che vorrebbe dire ai sardi?
«Una soltanto. Qualunque cosa io abbia fatto, chiunque sia stata nel male e non nel bene, ho diritto a finire i miei giorni lontano da un cella. Aiutatemi».