Le parole sono macigni. Come quelli che dalla montagna si sono riversati a velocità inaudita nelle strade gincana del cuore di Bitti. Sbagliato chiamarla alluvione. Dentro il centro abitato non ha tracimato acqua ma una vera e propria colata di detriti, rocce e fango. Il mix è stato esplosivo, come se la montagna fosse esplosa in più punti facendo riversare a valle un carico impressionante di centinaia di migliaia di metri cubi di devastazione.

Dissesto idrogeologico

La quantità d'acqua caduta a Bitti non ha precedenti, ma il disastro è legato al vero allarme: il dissesto idrogeologico. Montagne abbandonate e dimenticate, sfruttate e ferite. Pianura, città e paesi che ne pagano le conseguenze. La catena idrogeologica non ammette distrazioni. La regimentazione delle acque non parte dal basso, si costruisce a monte. A volte si ipotizzano opere ciclopiche e milionarie dentro i paesi, si creano argini direttamente dentro le città. Nei bacini idrografici, quelli che raccolgono l'acqua tra una montagna e l'altra, invece, tutto è lasciato al caso. E chi ne paga le conseguenze è la salute del territorio. Giancarlo Carboni da giovane voleva fare il fisico, poi ha optato per la Geologia. «Ho cambiato dopo un anno di studi, ho sentito il bisogno di conoscere la mia terra e di essere utile alla sua salvaguardia».

Sa Fluminera

Del resto vivendo a Villacidro, alle pendici del Monte Linas, non poteva non sentire quello scroscio d'acqua amplificato e imponente che ad ogni pioggia attraversava il centro del Paese d'ombre. Un fragore da jet del sottosuolo che preannuncia il carico esplosivo del rio Fluminera, uno dei tanti canali tombati che tagliano le viscere dei centri abitati della Sardegna. Oggi il geologo di Villacidro è il presidente sardo dell'Ordine dei medici della terra, i geologi. Ogni pietra, la sua posizione, la consistenza, il colore racconta la storia del territorio. E aiuta a capire, molto spesso con largo anticipo, i rischi che si corrono.

Ascoltare la terra

Per questo motivo nei giorni tremendi di Bitti lui era lì, ad ascoltare la terra. A leggerla. E non è un caso che non si sia soffermato sulle macerie e quella inaudita valanga di detriti che ha invaso in modo inesorabile il paese della Barbagia. A piedi, con lo strumento dell'occhio e della scienza, è salito sulle montagne che circondano le pendici del Mont'Albo. È andato lì, dove la distruzione di Bitti ha avuto inizio. È salito sui costoni per capire come fosse stato possibile che il dilavamento della montagna si fosse trasformato in una vera e propria colata detritica. Come se l'Etna avesse riversato a valle tutta la sua forza distruttrice. È qui, tutto qui, il cuore del problema. Giancarlo Carboni, medico della terra che ausculta il battito del suolo ha le idee chiare. «Il problema non è stato il livello pure impressionante delle precipitazioni, il vero vulnus è stato il trasporto solido, ovvero tutto il materiale che si è riversato a valle senza tregua».

Colata lavica

Per capire il fenomeno basta un semplice dato: la colata di detriti, pari ad una colata lavica, raggiunge velocità massima di 20 metri al secondo, ovvero quasi 100 km all'ora. Un carico esplosivo devastante, che nella ripida discesa si moltiplica nell'effetto senza trovare più ostacoli. Il tema è cruciale e al tempo stesso moderno, vista l'evoluzione drammatica del degrado del suolo e le rapide modificazioni climatiche. Gran parte dei canali tombati della Sardegna, ma il fenomeno è diffuso anche nel resto d'Italia, sono stati dimensionati per le possibili alluvioni, senza tener conto delle colate detritiche. Ci riflette il presidente regionale dei Geologi ma non si trattiene: «Per essere chiari - dice con cognizione di causa - siamo dinanzi ad una vera e propria bomba idraulica ad orologeria. Gran parte di questi canali tombati in giro per la Sardegna sono stati dimensionati per i flussi d'acqua, e a volte sono sottodimensionati anche per questo, ma figuratevi se anziché l'acqua arriva una colata di detriti di quella portata. La sezione idraulica di quei tunnel piatti, fattisi strade nei centri abitati, è destinata a saltare come niente con tutto quello che drammaticamente ne consegue».

Acqua e frane

È per questo motivo che nelle carte del rischio non basta più calcolare la statistica delle alluvioni, utilizzando il semplice livello delle precipitazioni. È l'Ispra, l'Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale, a sommare i pericoli dell'acqua a quelli delle frane. Il dato per la Sardegna è da choc. Su 377 comuni ben 338 risentono della sommatoria del rischio frane e alluvioni. Il tema del trasporto solido del dilavamento è il vero allarme dei geologi. «Non si può e non si deve più ignorare», spiega Giancarlo Carboni. «Bisogna fare oggi quello che si è fatto dopo la caduta del ponte Morandi a Genova. È indispensabile un grande piano di monitoraggio dei canali tombati di tutta la Sardegna a partire dagli affluenti idrici principali e secondari».

Studiare le pendici

Bisogna salire sulle pendici delle montagne per esaminare lo stato di salute del suolo, il grado di franosità, la consistenza del terreno più ricco, il grado di fertilità e la capacità di arginare il dilavamento con metodi colturali adeguati e appropriati. A quel punto il piano non deve perdere più tempo. Servono interventi urgenti laddove emergesse l'esigenza di rimedi immediati, a partire dalla liberazione dei canali per consentire un controllo diretto del flusso idraulico dell'area. «Bisogna intervenire subito dove appare chiaro il rischio di un canale chiuso e uno stato di salute grave del suolo a monte. Occorre prevenire ovunque l'effetto Bitti. In molti casi sarà indispensabile, dopo questo esame preventivo e rapido in tutta l'Isola, eliminare la copertura dei canali».

La storia dei paesi

Del resto il tempo ha stravolto paesi e regole dell'Isola. La storia insediativa dei centri abitati della Sardegna è legata a doppia mandata a quel corso d'acqua indispensabile per la crescita e lo sviluppo. Lo si voleva il più vicino alle case, ma i vecchi hanno sempre costruito le loro abitazioni nei cosiddetti "alti morfologici", ovvero le parti alte, proprio per evitare la forza dei corsi d'acqua. Con il tempo si sono cominciati a tombare quei fiumi, sino a dimenticarsene, arrivando a costruire in quello che sarebbe rimasto nelle pendenze sempre un compluvio.

La regola dei fulmini

I canali tombati sono, dunque, diventati arterie stradali e l'incedere dello sviluppo urbanistico ha fatto il resto. Giancarlo Carboni non usa mezze frasi: «Sono bombe idrauliche ad orologeria. Bisogna fare in fretta, sconfiggendo burocrazia e vecchie convinzioni: in Sardegna, d'ora in poi, per calcolare il rischio idrogeologico, bisogna sommare alle alluvioni anche il rischio frane. E se qualcuno fosse ancora convinto che un fulmine non cade mai due volte nello stesso punto, dopo Bitti si devono ricredere tutti». Macigni, non parole.

Mauro Pili
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