Quando parla sibila, quando deve "confessare" si fa secretare, se vuole farsi sentire alza voce. Federico Cafiero De Raho, classe 1952, entra in magistratura nel 1977, troppo giovane per condividere il maxi processo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino alla mafia. Dell'Alcatraz di Fornelli, nell'isola dell'Asinara, ha sentito solo parlare. Oggi è il numero uno dei giudici antimafia in Italia, Procuratore nazionale della lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo. Ora è ufficiale. È lui che vuole mandare un'altra nave carica di mafiosi in terra sarda. I numeri uno delle cosche e dei clan da sbattere in Sardegna, secondo una bislacca idea che in quest'isola saranno isolati e irraggiungibili. Di lui, il Federico dell'antimafia, parlano come di un duro con il silenziatore, schivo e riservato, pronto a reprimere il chiacchiericcio di giudici e inquirenti, determinato a sconfiggere mafia, camorra, 'Ndrangheta e Sacra Corona Unita. I casalesi non lo amano, con il processo Spartacus ne ha schiaffato a centinaia in galera, molti al 41 bis.

Quando a Sassari, in pieno lockdown, per motivi di salute hanno mandato a casa Pasquale Zagaria, detenuto in regime di 41 bis, fratello del capoclan Michele, Cafiero De Raho non è restato in silenzio: «Per i mafiosi andare ai domiciliari è come essere liberi. Rientrati a casa sono in grado di riprendersi quello che lo Stato con grande fatica era riuscito loro a togliere: potere economico, considerazione sociale. Riattiverebbero in un attimo tutti quei traffici criminali che il lavoro delle forze di polizia, della magistratura, aveva interrotto».

L'Antimafia e il Procuratore

Nella blindata commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, solitamente le sedute sono segrete. Nella Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto a Roma, a due passi dal Pantheon, il più delle volte i microfoni si spengono, per non lasciare spazio ad informazioni utili al nemico. Nell'ultima seduta il nastro magnetico si è fermato più volte: secretato. Tre ore di confronto serrato con il capo dell'antimafia. Quando Cafiero De Raho inizia a parlare, però, non chiede la secretazione. Deve lanciare messaggi chiari a chi lo deve ascoltare. Parla a ruota libera del 41 bis, del carcere duro per mafiosi, camorristi e 'Ndranghetisti. E ammette: ci sono tentativi per ridurre il numero degli aventi titolo al carcere duro. Il Dap, che sta per Dipartimento per gli Affari Penitenziari, finisce nel mirino del Procuratore capo. Da dieci anni a questa parte i responsabili del Dap non fanno altro che lamentarsi del numero eccessivo di detenuti in regime di 41 bis. Gente problematica, in effetti, non ladri di polli. Personaggi abituati a sciogliere bambini nell'acido o a piazzare quintali di tritolo in una tubatura di scolo in mezzo ad una autostrada e far saltare per aria i malcapitati con un telecomando. Come cambiare un serial tv, dalla vita alla morte con un click. Tutte bestie del crimine, in gran parte già ospiti nel carcere di Bancali, a Sassari. Si arma di santa pazienza il De Raho procuratore. Da anni spiega agli interlocutori che non si possono ridurre i detenuti in regime di 41 bis. Metterli in qualsiasi altro circuito significherebbe allentare la presa, sarebbe un messaggio debole e funzionale alla ripresa violenta del loro agire criminale. Riprenderebbero in un attimo il controllo delle cosche e dei clan, dei territori e della malavita. Per il Procuratore capo nazionale dell'antimafia c'è una sola soluzione: più carceri per capimafia. Si ferma, per un soffio, il Federico della lotta alla mafia. Dopo un'ora e 14 minuti di serrata audizione, tra secretazioni e libere dichiarazioni, a microfoni accesi lancia l'ultimatum con la pacatezza di chi non è perentorio nella forma ma lo è nella sostanza. E la Sardegna in un attimo diventa protagonista delle mire dell'antimafia. Il vertice che deve sconfiggere 'ndrine e cosche soppesa le parole ma, poi, le pronuncia tutte d'un fiato: «Non è possibile andare avanti così, servono immediatamente nuove strutture per il 41 bis e speriamo che con quella che si sta completando in Sardegna si riesca a dare risposte immediate, in attesa che altre strutture vengano adattate per affrontare il problema».

Missione Sardegna

Non cita nessun altra regione, solo la Sardegna. Il riferimento è esplicito alla nuova Caienna di Stato che il Ministero delle infrastrutture sta cercando di portare a compimento di tutta fretta nel carcere cagliaritano di Uta. Lavori ammantati nel silenzio, sino alla pubblicazione dei documenti che attestano i nuovi esborsi di Stato per accelerare il cantiere a ridosso di Monte Arcosu. E solo ora si comprende perché tanta fretta nel concludere il padiglione dei capi dei capi. Missione tracciata per fine agosto, massimo primi di settembre. Imperativo dei vertici nazionali, con il silenzio di tanti. Per l'uomo che ha mandato gambe all'aria le cosche dei casalesi non è una semplice esortazione, semmai un ultimatum, di quelli risoluti, per chi ha occhi e orecchie per intendere: l'Isola deve farsi carico di altri 110 capimafia, oltre i 92 già in esercizio nel carcere di Bancali a Sassari. A confermare quanto abbiamo anticipato nei giorni scorsi, nelle prime due puntate della nostra inchiesta sui legami tra criminalità organizzata e delinquenza locale, è direttamente il capo di tutti i procuratori distrettuali antimafia. Dichiarazioni senza appello nella sede istituzionale per eccellenza, quella commissione d'inchiesta che dovrebbe vigilare sui fenomeni criminali e le modalità di contrasto sia sul piano legislativo che operativo. Sul capitolo Sardegna e Cagliari, però, nessuno parla. Nessuno tra le patinate pareti del potere apre bocca. Per tutti, nei palazzi di Roma, è un dato acquisito: i capi dei capi non li vuole nessuno, mandateli nell'isola di Sardegna.

Isola solo per mafia e camorra

Per lo Stato, dall'energia ai trasporti, l'insularità non esiste, salvo quando c'è da spedire nell'isola un'orda di camorristi e dintorni. Nessuna presa di posizione su una norma che in nessun articolo o comma prevede che i mafiosi debbano essere mandati in Sardegna. Semmai, e preferibilmente, in aree insulari, ovvero isolotti in mezzo al mare, non una terra con un milione e 650 mila abitanti e tante occasioni di infiltrazione da parte della criminalità organizzata a tutti i livelli.

La contraddizione dello Stato scorre nelle parole che il Procuratore pronuncia nell'incredulità generale. Nelle carceri, dice candidamente il vertice dell'antimafia, sono arrivati telefoni e droni. Sì, droni, carichi di droga e schede telefoniche. Non cita il luogo, ma il riferimento esplicito è al carcere napoletano di Secondigliano. Nelle celle dei capimafia, racconta De Raho, c'è un colloquiare insistente, nonostante i vertici delle cosche non possano minimamente parlare tra loro. Da ogni cella, racconta apertamente, si può parlare con chi si vuole, arrivando a mettere in discussione l'organizzazione e la sicurezza dietro le sbarre. Carceri bucate, che si tratti di alta sicurezza o 41 bis. I numeri dell'organizzazione del resto parlano chiaro e la Sardegna ha il primato italiano dei vuoti in organico.

Carceri bucate, senza personale

La mappa degli agenti penitenziari, quella ufficiale, recita un fabbisogno di 1815 agenti, in realtà in servizio ne vengono registrati appena 1354, ben 451 in meno. Tutti numeri che non tengono conto di distacchi, malattie e permessi. La gestione del rapporto tra detenuti e personale in Sardegna è la peggiore d'Italia con un meno 25%. Solo la Calabria si attesta su pari valori. Una calata di allievi e adepti dei più spietati capi clan, con certificati penali stampati in rotoli di carta alti almeno dieci piani. Già si fa la conta delle carceri nel nord Italia da svuotare per mandare in Sardegna quei 110 "padrini" pronti a mettere a ferro e fuoco dentro e fuori il carcere di Uta.

Le infiltrazioni in terra sarda non sembrano interessare a nessuno, ma l'escalation di saldature, ormai più che evidenti, tra le più spregiudicate organizzazioni criminali e la delinquenza locale sono un fatto sancito da sentenze di terzo grado. Inappellabili.

I traffici di droga, la lavatrice di denaro sporco nelle energie rinnovabili e negli investimenti nel turismo, nell'usura e non ultimo in un gigantesco mercato delle armi. Armi da guerra, con la Sardegna capofila insieme alle organizzazioni dell'Ndragheta. Tutti fatti provati e messi nero su bianco dalla Direzione Investigativa Antimafia. Uno Stato bipolare, da una parte scarica in Sardegna gli sciogli-bambini e dall'altra denuncia il pericolo di infiltrazioni mafiose e non solo.

A Sassari, nel carcere dei capimafia, intanto, hanno preso alloggio i più pericolosi terroristi jiaddisti, quelli che predicano di far saltare in aria il Vaticano e dintorni. Ma questa è un'altra storia dell'accoglienza criminale in terra sarda.

Mauro Pili

(Giornalista)
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