Non è un’ordinaria storia di rifiuti. È molto di più, a partire dai protagonisti. C’è la multinazionale. Potente, intoccabile, pane e croce per uno dei territori più poveri d’Italia, il Sulcis. Ci sono i top manager, quelli di ieri e di oggi. Ci sono gli ex sindacalisti, quelli diventati di punto in bianco consulenti della multinazionale e, poi, clamorosamente soci in affari. C’è soprattutto la Sardegna, ancora una volta preda e meta dei traffici di rifiuti meno nobili, per voler esser garantisti.

Un nome, una garanzia – La storia si consuma tra contratti criptati, nascosti nelle casseforti svizzere e negli archivi molto personali dei protagonisti. Denari, molti, milioni e milioni di euro, trasformati in un vortice di affari e veleni. Rifiuti industriali, pericolosi, dichiarati come un “ben di Dio” per produzioni di cui nessuno sa niente. Il meccanismo che emerge è inedito e nel contempo perverso: ci sono gli scarti di lavorazione di una delle fabbriche più controverse della storia minero-metallurgica della Sardegna, la Portovesme Srl. Un nome affibbiatole con l’unico intento di mitigare il peso della multinazionale che ci sta dietro: la svizzera Glencore.

Terra seviziata - La storia, qui, in questa terra seviziata da veleni e aerosol fulminanti, non lascia margini. L’inquinamento tra Portovesme e dintorni ha scavato in profondità, ha invaso le viscere della terra, trasformate in discariche tossico-nocive, qualche volta abusive, qualche altra volta realizzate grazie a controverse autorizzazioni. Le falde idriche sono perennemente iniettate di percolati di cui niente si sa, di cui poco si vuole sapere. Difficile dare fiducia a chi da decenni sfugge, in un modo o nell’altro, all’obbligo delle bonifiche. La storia, quella di questi giorni, scoperchiata dalla Procura della Repubblica di Cagliari, è ben di più che un’inchiesta ambientale. Le fasi processuali giudiziarie traguardano l’orizzonte della chiusura delle indagini. Tra qualche giorno scadranno i 20 giorni entro i quali gli indagati potranno, se vorranno, prospettare giustificazioni o pentimenti.

I reati, i fatti indelebili – Sarà la storia, quella giudiziaria, a dire se quanto accertato dagli inquirenti costituisce o meno un reato. Non vi è dubbio, però, che, a prescindere dall’aspetto penalistico della vicenda, circoscritto in ogni dettaglio nell’inchiesta firmata da due pubblici ministeri che non hanno lasciato niente al caso, Rita Cariello e Rossella Spano, ci sono fatti conclamati, schiaffati sotto gli occhi di tutti in un fiume in piena di rifiuti. La Pedemontana, la strada quella che collega l’interno del Sulcis con le porte di Cagliari, sul versante di Macchiareddu, trasformata per anni in un vero e proprio nastro trasportatore di sostanze che, ad occhio nudo e a quello invasivo dei microscopi chimici, non sono apparse fertilizzanti per rose e fiori.

Suonano a casa di Heidi – Quando il campanello della chiusura indagini ha suonato nelle residenze degli indagati sono stati in molti a porsi tante domande e provare a darsi qualche risposta. Partiamo dalla fatualità. La sequenza degli accadimenti non è stata d’aiuto alla potente multinazionale, quella con la residenza fiscale confinata tra le verdi montagne delle Alpi e le mucche “zebrate” delle fiabe di Heidi. La notizia della chiusura dell’inchiesta dei due pubblici ministeri sardi arriva all’indomani del piano svelato dal nostro giornale, presentato dalla stessa multinazionale indagata, insieme ai suoi vertici sardi, per trasformare la Sardegna nel più grande hub europeo per il riciclo delle batterie esauste, quelle sparse in giro per il mondo. Una sorta di gigantesco collettore mondiale di rifiuti, tanto sconosciuti quanto pericolosi. A farsi avanti, ancora una volta, è la logica dell’economia fondata sull’immondezza industriale, quella che, in un modo o nell’altro, vede la Sardegna sempre drammaticamente protagonista. Ieri, come oggi. Se per l’operazione “rifiuti di batterie” la multinazionale svizzera ha scelto il nefasto nome di “Black Mass”, la massa nera, per quella vergata nella carta intestata della Procura di Cagliari avrebbe voluto scegliere “operazione polvere bianca”. Se il piano “Black Mass” è tutto un programma, “polvere bianca” è, invece, un capitolo buio di un intrigo societario-affaristico tutto consumato all’ombra delle ciminiere di due aree industriali connesse solo dalla dichiarazione di area ad elevata crisi ambientale, il Sulcis e Macchiareddu. La “massa bianca”, solo teoricamente bianca, non è farina di grano duro. Sia la nera che la bianca sono rifiuti a tutti gli effetti. Non rifiuti come denigrazione di un sottoprodotto di lavorazioni industriali, ma proprio perché la stessa multinazionale in chiave sarda, la Portovesme srl, non ha negato l’evidenza. Sia per le scorie di batterie, che per quella montagna di scorie pseudo bianche generate dal processo industriale di Portovesme, è la stessa società ad attribuirgli la poco nobile qualifica di “rifiuti speciali pericolosi”. Gli svizzeri ci hanno provato a mitigare le qualifiche, parlando di “gessi”. La Procura non gli ha dato retta. Le carte sequestrate non lasciano molti margini: è la stessa multinazionale, il tre marzo del 2015, ad accertare per quelle montagne di polveri la qualifica di “rifiuto speciale pericoloso”. Quando gli inquirenti irrompono a Macchiareddu, in uno dei tanti capannoni ciclopici dell’industria fallimentare che ha cessato di vivere negli anni del default, non credono al misfatto che le pupille nemmeno riescono a contenere. Le immagini inedite che pubblichiamo sono eloquenti. Due stadi di calcio, alti più di 15 metri, strapieni sino al colmo del soffitto di quei “rifiuti” che la Portovesme srl aveva deciso di “svendere” ad una società senza una grande storia, parcheggiata proprio nella quinta strada dell’alcova industriale di Macchiareddu.

Rifiuti che traboccano – Quel rifiuto trabocca da ogni porta, da ogni finestra. Doveva restare nascosto lì dentro, protetto dagli occhi indiscreti, all’interno di quel capannone industriale trasformato in una vera e propria discarica al coperto. Peccato, però, che quel rifiuto venduto come gesso, non sia passato inosservato agli inquirenti. I capi di imputazione sono puntuali e circoscritti, il documento di cui siamo entrati in possesso, però, non lascia adito a fraintendimenti. Un documento chiave di una vicenda che va ben oltre la vicenda ambientale. Un atto inedito che pubblichiamo per stralci, come architrave dell’intera operazione finita sui tavoli di Palazzo di Giustizia. Tre righe per esplicitare i rapporti: «il compratore è d’accordo nell’acquistare ed il venditore è d’accordo nel vendere e consegnare il materiale descritto di seguito ai termini e condizioni descritti nel presente contratto». Il protocollo è quello interno alla società che fa capo alla multinazionale svizzera: «V.15.014 del 10 agosto del 2015». Tre pagine firmate con dettagli, promesse di denaro, merce di scambio per un’operazione che gli stessi indagati, forse per primi, non pensavano come un’icona di trasparenza.

Contratto & regali – Gli articoli del contratto che sventrano il buon senso sono il sei e il tredici. Il numero sei è quello più sintetico: «Prezzo – La cessione del materiale avviene al prezzo di un (1) euro per tonnellata tal quale». Praticamente quel che viene descritto come un “ben di Dio” viene di fatto regalato ad un euro a tonnellata ad una società che si dichiara pronta a riutilizzare quei rifiuti o rivenderli per altri cicli produttivi. Il business, però, non è qui. È all’articolo 13 quando la Portovesme srl dichiara: «Il venditore (la Portovesme srl-Glencore n.d.r.) riconoscerà al compratore (Nuova Materie Prime Mediterranee n.d.r.), a titolo di contributo per le attività di trasporto e gestione, la complessiva somma pari a Euro 26 a tonnellata più iva di legge». Insomma, un affare milionario, per tutti. Per la Portovesme srl che si liberava di quei rifiuti vendendoli ad un euro a tonnellata, sobbarcandosi, però, un cifra imponente di 26 euro a tonnellata per “sostenere” le spese dell’acquirente.

Affare milionario – I calcoli della Procura sono eloquenti. La multinazionale svizzera per smaltire in discarica quelle 150 mila tonnellate di scorie, tante ne sono state stivate nel capannone di Macchiareddu, avrebbe dovuto pagare 43 milioni e mezzo di euro. Ne ha risparmiato 40 e mezzo, perché praticamente le ha “regalate” vendendole ad un euro, con tanto di “dono” di altri 26 euro a tonnellata, alla società di Macchiareddu, di cui è socio un ex sindacalista, già consulente della stessa Portovesme srl. La sintesi è semplice: anziché conferire quei rifiuti in discarica, si è preferito rinchiuderli in quel gigantesco capannone nella zona industriale cagliaritana. Gli indagati continuano a sostenere che quel “rifiuto” doveva essere riutilizzato in un fantomatico circuito produttivo. La realtà è un’altra: tutto quel “ben di Dio” di rifiuti, una montagna ciclopica, è da sempre rinchiuso dentro un capannone, nella discarica della quinta avenue di Macchiareddu, terra di Sardegna, ad un tiro di schioppo dagli affari industriali della multinazionale svizzera, nell’inferno del Sulcis. 

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