«È un enigma, questa è la verità». C’è qualcosa di sorprendente nella tecnica del plissé, la piega regolare che rimbalza da un manufatto all’altro e attraversa l’intera storia umana. Il senso dell’archeologo in Alessandro Lai, celebre costumista cagliaritano, ha prevalso e, in sintonia con Maria Antonietta Mongiu e Francesco Muscolino, componente del Cda e direttore dei Musei Nazionali di Cagliari, con l’assessorato regionale alla Pubblica istruzione e l’Istituto regionale etnografico, ha allestito un percorso, tra moda e archeologia, abiti e oggetti, che narra questa vicenda millenaria. Non a caso, intitolato “Plissé semper plissé”, aperto fino al 7 aprile 2026 nella Cittadella dei musei a Cagliari, in tre spazi: il Museo archeologico, la Pinacoteca e il Museo etnografico regionale Collezione Luigi Cocco.
Com’è nato il progetto?
«È legato a un interesse che ho coltivato per anni: il contatto continuo con i tessuti, le sartorie (in particolare la Tirelli) e l’uso del plissé. A questo si sono unite le radici sarde e l’ammirazione per i costumi tradizionali, soprattutto per le pieghe delle gonne, diverse da paese a paese. La ricerca, simile a quella dell’archeologo, mi ha portato ad approfondire la storia millenaria del tessuto plissettato, presente in tutto il Mediterraneo, dalla Sardegna all’antichità egizia, greca e romana, fino a oggi».
Che cosa rende il plissé un’arte universale?
«La sua bellezza intrinseca: le pieghe riflettono la luce in modo unico e valorizzano il corpo con naturalezza. Inoltre, sa adattarsi a significati diversi: sensuale nell’abbigliamento femminile, solenne in quello ecclesiastico. Al tempo stesso, pur essendo raffinata e preziosa, la tecnica è stata usata anche negli abiti quotidiani, attraversando senza soluzione di continuità il confine tra eccelso e ordinario».
Nell’Isola, la piega è presente anche negli abiti d’uso comune.
«Lo è perché, da sempre, in Sardegna, il costume tradizionale esprime un forte senso di dignità, ordine ed eleganza che caratterizza noi sardi. Accanto al costume festivo, più ricco e decorato, esiste una versione ordinaria del costume, indossata nella vita di tutti i giorni: gonne e grembiuli a pieghe facevano parte della normalità, confezionati con materiali e lavorazioni più semplici rispetto agli abiti della festa».
L’abito tradizionale come espressione di un carattere nazionale?
«Il costume sardo racconta l’interiorità di un popolo e ne diventa il manifesto visivo. In esso si riflettono valori profondi come integrità, etica, rispetto, dignità e orgoglio, radicati nella storia e nella natura della nostra terra. Che sia tradizionale o ricreato per il cinema, il costume rende visibile un discorso interiore, trasformando l’abito nell’esteriorità di un’identità collettiva».
Nella sua lunga carriera ha collaborato con i registi Ferzan Ozpetek, Francesca Archibugi, Cristina Comencini; e con produzioni teatrali e serie tv di grande successo. Come ha iniziato?
«Ero molto giovane quando rimasi profondamente colpito dai film di Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini e Federico Fellini. Fu decisivo l’incontro, prima attraverso il cinema e poi nella vita, con Piero Tosi, autore dei costumi di quei film: dopo averne scoperto il lavoro, ne ho studiato l’opera, l’ho conosciuto e l’ho avuto come maestro».
Qual è il ruolo dei costumi in un film?
«I costumi non hanno solo una funzione estetica, ma concorrono a creare un insieme armonico, in cui tutti gli elementi funzionano insieme, per cui gli abiti di scena raccontano la storia senza prevalere su di essa».
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