Intervista

A lezione da Diliberto: «Nella Cina di Xi Jinping è la legge che comanda» 

L’ex ministro cagliaritano della Giustizia con cattedra di diritto romano a Wuhan 

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Nell’immagine del suo profilo WhatsApp Oliviero Diliberto guarda con affetto un gatto bianco e nero, equilibrata sintesi del motto (“Non importa se il gatto è bianco o nero, ma che prenda i topi”) che Deng usò per aprire la Cina all’impresa privata. Ha senso: con la scoperta del mercato il Dragone imboccò una strada che l’avrebbe portato a dotarsi di un codice civile. E qui entra in scena Diliberto. Cagliaritano, classe 1956, segretario del Pdci dopo la scissione da Rifondazione, ministro della Giustizia nei due governi D’Alema, oggi preside di giurisprudenza alla Sapienza di Roma e alla Zhongnan University of Economics and Law di Wuhan, in entrambe insegna diritto romano. La sua prima volta in Cina è nel 1999, da uomo di governo: «Col mio omologo cinese ponemmo le basi per una collaborazione giuridica. Tra le opzioni del governo cinese c’era quella di basare il codice sul diritto romano: ero il ministro che avviava questo rapporto, comunista e insegnante di diritto romano. Una congiuntura astrale particolarissima».

In che lingua insegna?

«Questa è una piccola soddisfazione: in italiano. L’inglese si usa per tutte le altre discipline ma non è la lingua del diritto. “Diritto” in inglese non esiste. Non c’è il “roman right” ma la “roman law”. Però il diritto non è la legge, sono cose completamente diverse. Perciò nella facoltà di giurisprudenza di Wuhan c’è un insegnamento di lingua italiana».

Qual è la differenza fra gli studenti cinesi e italiani?

«I cinesi per accedere all’università sostengono una prova nazionale terrificante con appena il 10 per cento di ammissioni. C’è il numero chiuso e dal tuo piazzamento dipende il livello dell’università a cui vieni destinato: è chiaro che lo studio diventa un impegno assoluto. In Cina è impensabile la figura dello studente lavoratore, lo studio è già un lavoro a tempo pieno. Non solo: hai l’obbligo di risiedere nel campus, così come i docenti, perché l’idea è che si debba creare una comunità. Certo, il campus è grande quanto Cagliari. E a Wuhan, su dodici milioni di abitanti, un milione sono studenti».

Qual è l’istituto più complicato da far capire ai cinesi?

«La successione. I cinesi dicono: “Sei diventato milionario? Bravo, ma tuo figlio che merito ha?”. E quindi ci si sono impantanati finché non hanno capito che se non gli garantisci la successione, perché il milionario non dovrebbe dilapidare tutto sul finale?».

Come è andata a finire?

«Figli e parenti hanno diritto alla successione ma pagano una forte tassa».

Che cosa fraintendiamo di più della Cina, a parte l’involtino primavera?

«Che peraltro non esiste».

Colpo di scena.

«O meglio, non esiste nella cucina cinese: è cantonese. E Canton è grande, ma la Cina è abbastanza più grande. Ma cucina a parte, quel che ci sfugge è che tutti, dall’uomo della strada al presidente, sono convinti di appartenere a un popolo, ognuno con un ruolo e una missione. E questo non è comunismo: è confucianesimo puro. Le do un altro elemento. Gli studenti cinesi fanno i compiti a casa. Da noi si copierebbe, lì mai: sarebbe un’ammissione di inadeguatezza».

Prodi, Tremonti, Rampini: quando parlano della Cina, chi va ascoltato?

«Tutti e tre. Prodi in Cina l’ho incontrato diverse volte e Rampini è stato a lungo corrispondente. Tremonti addirittura ha tenuto delle lezioni alla scuola del partito».

Ah sì?

«I cinesi sanno cogliere il merito e la competenza».

Prodi sull’Ucraina ripete che i cinesi sono come i siciliani: se stanno zitti sono di malumore. Ma l’asse Pechino-Mosca è solidissimo.

«I cinesi su scala internazionale hanno una posizione di grande equilibrio, sanno che la guerra danneggia i commerci e quindi l’economia. Cito due dati: il 90 per cento del petrolio iraniano è acquistato dalla Cina, ma il secondo partner commerciale della Cina è Israele. Se ci pensa, la Cina è sempre stata invasa ma non ha mai promosso guerre: è un popolo di commercianti. E di intellettuali».

Lei resta berlinguerianamente fedele agli ideali della sua gioventù?

«Assolutamente sì».

Ma sulla berlingueriana “democrazia come valore universale” la Cina latita.

«Berlinguer era in aperta polemica con l’Unione sovietica, e direi con molti fondamenti visto che nei dieci anni successivi si è dissolta. Con la Cina il problema è un po’ diverso: non possiamo applicare categorie che non appartengono ai suoi cinquemila anni di storia. Noi siamo arrivati alla democrazia - peraltro rappresentativa - passando per l’Atene di Pericle, la repubblica dell’antica Roma, la Magna Charta, l’illuminismo, la rivoluzione francese, quella americana e le costituzioni novecentesche. La Cina sta facendo un percorso. In Italia nessuno ne parla ma il presidente Xi Jinping da molti anni ha introdotto l’elemento della Cina come Stato di diritto, e la Costituzione è stata modificata in questo senso. La stessa promulgazione del codice punta a dare certezza del diritto ed evitare gli arbitri di chi comanda. Ma la discussione è stata pubblica e tutt’altro che indolore: si sono divisi e hanno litigato, anche sui giornali, con molta più libertà di quel che dice una certa vulgata. Perciò faranno un percorso, ma con le categorie proprie. E se posso fare una notazione sull’esportazione della democrazia, quando in Egitto hanno tenuto libere elezioni e hanno vinto i fratelli musulmani, Al Sisi ha subito fatto il colpo di Stato».

Xi Jinping sancisce il primato della legge, poi la cambia per fare il terzo mandato.

«Segnalo che Roosevelt è stato presidente degli Stati Uniti per quattro mandati, e se non fosse morto avrebbe fatto il quinto. E in Italia ci stiamo abituando a rieleggere i presidenti della Repubblica, cosa un tempo impensabile».

Lei, filopalestinese, ha detto no al boicottaggio delle università israeliane.

«Certo. Se il nostro governo facesse delle nefandezze, la Sapienza che c’entrerebbe? E poi nelle università c’è gran parte degli oppositori intellettuali di Netanyahu: perché punirli? Certo, la cosa mi ha attirato critiche aspre “da sinistra” (mi raccomando le virgolette) ma non mi sfiorano».

Ma pur anticonformista, la definizione più aggressiva che dà di Xi è “lungimirante”: chi guida una superpotenza illiberale non merita uno sguardo critico?

«Qualunque persona di normale intelligenza capisce che governare un miliardo e mezzo di persone è un po’ più complicato di come possiamo pensare noi in occidente. E la stabilità politica da questo punto di vista è una garanzia. Segnalo anche che ogni provincia cinese, che è grande come l’Italia, ha il proprio governo, che risponde al potere centrale ma ha larghissima autonomia. Sarebbe impensabile che una persona sola governasse un sistema così complesso. Detto questo, le innovazioni introdotte da Xi Jinping sono lungimiranti per davvero, e lo dico perché ho vissuto dall’interno l’introduzione del primato della legge».

La Cina è un concorrente, un avversario o un nemico?

«È un potenziale partner straordinario. Io amo moltissimo l’Italia, pensi che uso volentieri la parola patriota, e penso che sarebbe un bene per l’Italia continuare a mantenere eccellenti rapporti con la Cina, proprio nella visione che hanno i cinesi dell’umanità come una comunità dal futuro condiviso. Perché in un mondo come questo, proprio la pandemia ci avrebbe dovuto insegnare che i virus non hanno confini, il buco nell’ozono non ha confini, lo scioglimento dei ghiacciai non ha confini. E l’umanità dovrebbe collaborare, non farsi la guerra».

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