Il 20 marzo 1986 finiva l’epopea criminale di Michele Sindona, il banchiere messinese al centro di alcune tra le più oscure trame criminali del Novecento italiano.

Acclarati sono i suoi legami con Cosa Nostra - e in particolare con la famiglia mafiosa italo-americana dei Gambino - con la loggia massonica P2 di Licio Gelli e anche con le alte sfere della politica e del Vaticano.

Finì più volte sotto accusa, per riciclaggio di denaro sporco, torbide speculazioni, dissesti e fallimenti di istituti bancari.

Tra questi, la Banca Privata Finanziaria, che fu posta in liquidazione dalla Banca d’Italia. Commissario liquidatore fu nominato Giorgio Ambrosoli, che, consultando i registri e movimenti di denaro, provò a ricostruire i loschi affari intrattenuti da Sindona per arricchirsi e per arricchire i suoi sodali, nonché la rete di collusioni, anche ad altissimo livello, del banchiere.

Non ne ebbe il tempo. Nel 1979 Sindona assoldò un sicario e Ambrosoli venne messo in condizioni di non nuocere: assassinato.

Il banchiere finì in carcere per bancarotta e il 18 marzo 1986 arrivò anche la condanna all’ergastolo per l’omicidio Ambrosoli.

Due giorni dopo, esattamente 32 anni fa, nella sua cella del penitenziario di Voghera, si preparò un caffè, che fu avvelenato con cianuro di potassio.

Dopo averne bevuto Sindona cadde in coma e vi restò per due giorni. Poi morì.

L'accaduto venne archiviato come suicidio, ma una tesi alternativa mette in dubbio la versione e parla espressamente di omicidio.

Sia come sia, l’effetto fu lo stesso: con quel caffè Sindona si portò nella tomba tutti i suoi più tetri e sconvolgenti segreti.

(Unioneonline/l.f.)

Marzo 2018

Febbraio 2018

Gennaio 2018
© Riproduzione riservata