La storia si ripete. Sempre. Ma dalla storia non si impara. Mai. L’ultimo regalo arrivato dal mare si chiama “Lumpy skin disease”, tradotto dai cronisti in dermatite dei bovini. Sotto il coperchio - buono per tutto - del cambiamento climatico, non ci siamo fatti mancare nulla al sole di Sardegna. Pronti? Peste suina, agalassia, brucellosi, mucca pazza, blue tongue, scrapie, caev, aviaria, febbre del Nilo, visna-maedi, malattia del cervo… O, se preferite, passando dai pascoli e dalle stalle ai campi e alle serre, peronospora, virus giallo del pomodoro.

E ancora: citrus tristeza virus, psilla, ragno rosso… L’Isola ha sempre tenuto spalancate le porte all’invasore di turno, magari piccolo piccolo e con le ali, salvo poi versare lacrime, sangue e un sacco di soldi per tenere vivo un settore che ci dà da vivere. Tutti. Già, perché spesso facciamo spallucce davanti ai problemi delle nostre campagne, senza fare caso al fatto che se non c’è l’acqua per irrigare non portiamo a tavola frutta e verdura, non diamo ai nostri figli il loro pane quotidiano. Un po’ di consapevolezza ci aiuterebbe a comprendere meglio gioie e dolori del settore primario, anche perché, gioco forza, sono le nostre: la dermatite dei bovini non è un «loro» problema, è un «nostro» problema.

I fatti. Il nuovo virus è comparso in un’azienda zootecnica del Nuorese e tutta la Sardegna, in attesa di capirne di più, è finita in quarantena. A parte gli spostamenti interni, la maledizione per gli allevatori è il blocco della movimentazione al di là del mare. Una beffa. Anche grazie a recenti accordi di filiera, infatti, centinaia di imprenditori stavano consolidando un canale commerciale che ha dato ossigeno al settore: vendere i vitelli (sei-otto mesi) ai centri di ingrasso del centro e del nord Italia. Un mercato che si era liberato a fatica dalle manette della lingua blu: i bovini, portatori sani del virus, sono rimasti per anni confinati, con costi altissimi per le aziende. La blue tongue, o lingua blu, comparse in Sardegna alla fine dell’estate 2000. Spiazzati da un virus sconosciuto, trasmesso da un piccolo insetto (il “culicoides imicola”), i responsabili della sanità animale scelsero soprattutto la strada degli abbattimenti in una terra con un patrimonio ovino senza eguali. Arrivarono i rimborsi per i capi morti o eliminati, arrivarono i vaccini, ma ancora, in venticinque anni, non abbiamo imparato del tutto a difenderci, se si considera quanto poco si investe nella prevenzione e quanto i tempi della burocrazia condizionino l’acquisto del vaccino per il sierotipo giusto di un virus ormai di casa in Sardegna.

Ecco perché il nuovo incubo chiamato per semplicità dermatite dei bovini spaventa un po’ tutti. In attesa di rispondere alla domanda delle domande: come è avvenuto il contagio? La malattia, presente da tempo in molte aree del Continente africano, ha saltato di recente il Mediterraneo per approdare in Grecia, in Bulgaria, nei Balcani. La Sardegna, qualche giorno fa, ha fatto da apripista in Italia. Come è stato possibile? A voler ascoltare la pancia di qualche allevatore, per far uscire gli animali dall’Isola devi mostrare tanti e costosi timbri su una sorta di passaporto sanitario. Ma in entrata cosa succede? In molti atti amministrativi di questa o quella Giunta regionale si era parlato di Pif, Posti di controllo frontalieri in porti e aeroporti, trasformati in Pcf dalla gelida burocrazia di Bruxelles. Ma dammi una vocale, prendi una consonante, non è cambiato nulla: da noi si entra senza chiedere permesso. Speranza diffusa è che il sistema veterinario regionale, fatto anche di tanti bravi professionisti, sappia rispondere al nuovo assalto. In ballo c’è il futuro di una voce fondamentale della nostra – nostra – economia. Siamo tutti allevatori.

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