A poco più di sei mesi dal suo arrivo, il presidente di Uber Jeff Jones lascia la società.

Esperto di marketing, Jones era stato chiamato alla presidenza anche per migliorare l'immagine della compagnia, offuscata dalle dispute con i taxi tradizionali e da altre questioni. Come l'accusa di furto di proprietà intellettuale avanzata da Google e riguardante le auto a guida autonoma; lo scandalo dell'app per aggirare i controlli delle autorità; o i casi di molestie sessuali da parte di alcuni autisti negli Usa.

"Sono entrato in Uber per la sua mission e per la sfida di costruire competenze globali che aiutassero l'azienda a maturare e a prosperare nel lungo termine", ha quindi scritto Jones in una nota. Aggiungendo però che "le convinzioni e l'approccio alla leadership che hanno guidato la mia carriera non sono coerenti con quello che ho visto e provato".

Ma le grane della società californiana non finiscono qui; perché quello di Jones non è l'unico addio in vista.

Ad annunciare le dimissioni è stato infatti anche il vicepresidente Brian McClendon, intenzionato ad abbandonare il proprio posto per occuparsi di politica.

McClendon è uno degli ingegneri a capo del progetto di guida autonoma ed era arrivato da Google un paio di anni fa, dopo essere stato a capo di Google Maps.

"Resterò come consulente", ha dichiarato in una nota. Spiegando che "le elezioni di questo autunno e l'attuale crisi fiscale in Kansas mi stanno spingendo a partecipare in modo più pieno alla nostra democrazia".

Si allunga così la lista dei top manager in uscita di Uber. All'inizio del mese hanno infatti rassegnato le dimissioni, tra gli altri, Ed Baker (vice presidente responsabile di prodotto e crescita) e Charlie Miller (uno dei principali ricercatori di sicurezza).
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